domenica 18 gennaio 2015

L’età dell’interruzione


Immersi nei social network connessi con ogni device travolti dalle informazioni viviamo mettendo il pausa di continuo ciò che stiamo facendo,
 riducendo la nostra attenzione a pura percezione 

Ecco come le nostre vite sono diventate un eterno intervallo tra gli intervalli

Maurizio Ferraris

"La Repubblica", 18 gennaio 2015

Siamo in una situazione che è di fatto quella militarizzata della mobilitazione totale, siamo sottoposti a un senso di costante inadeguatezza e frustrazione, viviamo l’opposto speculare della condizione di pienezza e di realizzazione che si accompagna di solito al portare a termine un progetto

UN RECENTISSIMO studio della University of Southern California ha stabilito che viviamo nella “età della interruzione”: siamo perennemente connessi a molteplici apparati, e di fatto la nostra attività prevalente consiste nell’interrompere quello che stavamo facendo per incominciare a fare qualcos’altro, interrompendoci di lì a pochissimo e così via all’infinito. Una situazione inconcepibile pochi decenni fa. Nel giro di un secolo abbiamo avuto almeno tre età, diverse tra loro non meno che il neolitico e l’età del bronzo. Sino a metà del Novecento siamo stati nel pieno dell’età della produzione: si fabbricavano artefatti, quelli su cui, per esempio, si è costruito il “miracolo italiano”. La produzione avveniva in tempi scanditi e in spazi ben delimitati: otto ore, e poi finisce il turno, non si può esercitare ininterrottamente una funzione che richiede energia fisica e la disponibilità di grossi apparati meccanici concentrati nelle fabbriche. Poi siamo passati all’età della comunicazione: si trasmettono notizie, i tempi sono meno scanditi, e gli spazi anche. È l’epoca (1980) in cui Gillo Dorfles pubblica L’intervallo perduto: il nostro mondo, che è fatto di interruzioni e di spazi vuoti, si riorganizza nella forma di un continuum, e vien meno l’interruzione, la separazione tra un evento e l’altro.
Da quando il web e i suoi dispositivi hanno fatto irruzione capillarmente nella nostra vita, siamo entrati in una terza età, appunto “l’età dell’interruzione” oppure “della registrazione”: come nell’epoca della produzione si fabbrica, come in quella della informazione si trasmette, ma quello che viene fabbricato e trasmesso è un documento registrato, destinato a rimanere lì dove si trova e inoltre a circolare per un tempo e uno spazio indefinito sul web. Mi spiego: ogni utente è al tempo stesso un produttore di informazioni, postate sui social network. Al tempo stesso, ogni contatto sul web produce automaticamente informazioni e documenti sugli utenti. Si crea una situazione di indistinzione tra sociale e mediale (la vita sociale è quella che ha luogo sul web) e tra privato e lavorativo (gli stessi dispositivi servono per il lavoro così come per la gestione della vita privata e per l’intrattenimento).
Qui, piuttosto che con una perdita dell’intervallo, abbiamo a che fare con una interruzione universale. In una situazione che è di fatto quella militarizzata della mobilitazione totale, siamo sottoposti non a un flusso di informazioni (che poteva anche essere seguito con una attenzione distratta), ma appunto con un flusso di documenti, vincolanti perché scritti (scripta manent) e individualizzati, cioè rivolti solo a noi, che ci spingono all’azione (minimalmente, alla reazione: il messaggio richiede risposta, e nel farlo genera responsabilità). Il che genera un senso di costante inadeguatezza e frustrazione, ossia l’inverso speculare della condizione di pienezza e di realizzazione che si accompagna al portare a termine un progetto o un oggetto.
Siamo perennemente in difetto e, nel lungo termine, questa situazione diviene strutturale. Sicuramente, chi ha inventato il web ha pensato a un veicolo di conoscenza più che a una catena di trasmissione di ordini e di azioni, proprio come chi ha inventato il telefonino non avrebbe mai previsto che si sarebbe trasformato in un archivio e in un terminale di una catena militarizzata.
Si tratta allora di mettere a fuoco la sindrome. Il moltiplicarsi delle interruzioni che ha luogo in un archivio infinito non ci porta, come ingenuamente si potrebbe credere, nel cuore dell’attualità, ma in una ucronia in cui tutto è contemporaneo di tutto. Più che il mondo in diretta, quello che ci si fa avanti attraverso il web è una montagna di giornali vecchi che circondano il giornale di oggi ponendo il quesito: qual è l’attualità? Dove siamo, oggi? Che cosa è successo? Sappiamo quando è iniziata e quando è finita la Seconda guerra mondiale, ma il confuso conflitto senza nome in corso almeno dall’11 settembre non sembra avere eventi o evoluzioni, è un continuum di cui non si riescono a prevedere gli sviluppi né meno che mai a trovare una identità.
Senza nulla togliere ai meriti e alle risorse del web, che appaiono irrinunciabili, anzi, proprio per dare senso e scansione alla ricchezza del continuum, i giornali, l’università, e anche quella istituzione in profonda trasformazione che è la televisione, possono giocare un ruolo essenziale. Difficile ricorrere ai giornali per le minute informazioni sul tempo, sul corso del dollaro, sui cinema e sui treni: i flussi sono gestiti benissimo dal web. Ma cosa siano gli oggetti, gli eventi, e la stessa nozione di attualità, quello può dircelo solo la prima pagina del giornale. E che cosa sia vero è tradizionalmente garantito dalla scienza e dalla cultura che trova nelle università e nel sistema editoriale il suo tradizionale punto di forza. Infine, che qualcosa sia “pubblico”, cattolico in senso etimologico, è stato garantito da quel tubo catodico, oggi scomparso come apparato tecnico ma che rimane il vessillo della televisione rivolta a tutti.
Senza una notizia che resti immutata per 24 ore, e su cui si possa riflettere, senza una comunicazione di cui si può avere la ragionevole certezza che raggiungerà quasi tutta l’opinione pubblica, senza la possibilità di comprovare l’attendibilità delle informazioni diviene difficile dar senso alla nozione di “informazione”, “attualità” e “opinione pubblica”. Per quanto la struttura del giornalismo, dell’editoria, dell’università e della televisioni richiedano di essere ripensate, a causa degli evidenti arcaismi che presentano di fronte alle nuove tecnologie, resta che questo ripensamento e rilancio è indispensabile e imprescindibile, pena il venir meno di quei valori (opinione pubblica, attualità, sapere) che stanno al centro del progetto della modernità. Non è escluso che questa possibilità non si realizzi, e che ci si ritrovi (non troppo diversamente dalle società tradizionali che hanno preceduto la modernità) in un eterno presente scandito dalle stagioni (per quanto a loro volta indifferenziate nel continuum del riscaldamento globale). Ma è certo che, se ciò avvenisse, sarebbe molto difficile non parlare di un danno culturale e politico, e non credo di dire niente di originale nel ricordare che il carattere fondamentale della nostra epoca, cioè l’anacronismo (chi si sarebbe immaginato la rinascita di un Califfato, sia pure su web?) non sia estraneo a questa scomparsa delle scansioni, a questa inflazione di interruzioni e di frustrazioni che generano come contrappeso la nostalgia dell’arcaico in un mondo islamico che non è meno tecnologizzato di quello occidentale.

Il grande flusso che confonde il pensiero critico

Paolo Legrenzi

NELLA prima metà del secolo scorso, scrittori come Aldous Huxley (Il nuovo mondo, 1932) o George Orwell (1984, 1948), avevano immaginato il mondo del futuro. Il futuro è diventato presente, ma è tutt’altra cosa. Nei mondi di Huxley e Orwell le informazioni provenivano da un’unica fonte, un governo totalitario che ritroviamo in film come Fahrenheit 451 di Truffaut (1966) o Blade Runner di Ridley Scott (1982). In questi film un comando centrale serve per lavare il cervello e creare una finta tranquillità un po’ beota.
Dov’è oggi questa tranquillità uniforme? Nei paesi occidentali avanzati, i più sono continuamente bombardati da un flusso continuo di messaggi e, a loro volta, interrompono gli altri. Un incubo? Non proprio. Quando siamo sconnessi e lasciati in pace, proviamo spesso un senso di abbandono, una solitudine non sempre piacevole. La rete che ci avvolge è unica, come i dittatori fantascientifici di un secolo fa, ma non produce un ordine totalitario. Ciascuno pesca le informazioni che più gli garbano, e scambia le informazioni più disparate. Si entra nella vita altrui e si è penetrati o intrattenuti dagli altri. Sul più bello, siamo interrotti da messaggi frequenti e sovrabbondanti. La bussola per navigare in questo mare magnum è impazzita e produce effetti in modi disordinati e casuali.
Un semplice esempio, giusto per dare un’idea. Ponete di avere queste tre informazioni: A — Tizio sta con Caia B — Caia è sposata C — Caia ha un figlio Se la sequenza arrivasse a tutti nell’ordine A-B-C, avreste una mini-storia. Le informazioni piombano invece inaspettate, come frammenti di proiettili in un bombardamento casuale. Siamo noi a dover mettere insieme i pezzi: Caia sta con Tizio, si è sposata, e ha avuto un figlio. Oppure: Caia ha avuto un figlio, si è sposata e sta con Tizio. E così via. Caia è un po’ diversa per ciascuno di noi, e Caie diverse possono convivere in noi. L’abbiamo catalogata tra le persone sposate o tra le mamme? Oppure tra le mamme poi sposate? O tra le mamme con un partner nuovo?
Noi non sappiamo sempre come ripeschiamo questi frammenti dalla memoria perché vanno a finire in tanti cassetti mentali che funzionano come compartimenti stagni. Non stupitevi se una persona vi dice che non tutti i musulmani sono terroristi, ma che tutti i terroristi sono musulmani. Questa persona può ben sapere che recentemente ci sono stati atti di terrorismo commessi da nonmusulmani, per esempio da fanatici che si dicono neo-nazisti o anarchici. E tuttavia questi spezzoni di conoscenze stanno in un altro cassetto mentale, senza mettere in crisi l’affermazione sui terroristi/musulmani e sui musulmani/terroristi. Quello che una volta si chiamava pensiero critico, o semplice riflessione ragionevole, oggi funziona male, e sembra talvolta affievolirsi, se non svanire.
L’evoluzione della nostra specie non ci ha costruito per ragionare in ambienti invasivi e intermittenti, saltabeccando qua e là. I nostri antenati dovevano reagire a informazioni sui pericoli provenienti da un ambiente ostile. Ci serviva un’attenzione concentrata che agisse rapida ed era inutile una grande memoria di lavoro. La memoria di lavoro è un filtro di piccole dimensioni per cui passano tutte le informazioni prima di essere incapsulate in un cassetto di quell’armadio che è il magazzino permanente della memoria. Se una persona vi dice un numero nuovo di telefono, dovete ripeterlo fino a quando lo depositate in una memoria artificiale esterna, un pezzo di carta o un computer. Questo filtro immodificabile che sta tra noi e il mondo funziona come un imbuto strettissimo. Se ci interrompono, dobbiamo smettere di stare attenti a quello che stiamo facendo, e concentrarci per un attimo sulla nuova informazione. Siamo dentro una melassa che cattura l’attenzione per attimi, e tuttavia ci trattiene e ci intrattiene. Spesso, se viene a mancare, sentiamo di galleggiare nel vuoto, fuori dalla grande rete dove sta l’azione e la vita. Forse in questo gli scrittori di fantascienza di un secolo fa avevano visto giusto. Il nuovo mondo ci rende un po’ beoti ma contenti, e i pochi che vengono raramente interrotti, e si concentrano, sono quelli che finiscono per cambiare il mondo.

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