Tra la Germania nazista, l'Italia fascista e la Russia sovietica
vi erano delle affinità estetiche
Predominarono il realismo e il monumentalismo classicheggiante
Emilio Gentile
"Il Sole 24 ore - Domenica", 11 gennaio 2015
Scriveva a metà degli anni Cinquanta lo storico tedesco dell'arte Werner Hoftmann: «Il totalitarismo è una denominazione comune sotto cui vengono a trovarsi in stretta vicinanza forme apparentemente opposte, come il bolscevismo della fase leninista-stalinista, il fascismo di Mussolini e il nazionalsocialismo di Hitler. La più evidente e sorprendente dimostrazione di questo loro intimo accordo, diretto contro la libertà umana, è proprio il fatto che quelle tre forme produssero la stessa concezione artistica. Lo stile artistico ufficiale dei Paesi totalitari è ovunque il medesimo».
Si era allora nella Guerra fredda, e il termine «totalitarismo» era usato soprattutto nella polemica anticomunista per identificare la Russia sovietica con la Germania nazista. Gli studiosi che non condividevano quella polemica o militavano nel comunismo, negavano qualsiasi affinità fra i due regimi, e taluni arrivarono fino a proporre la messa al bando del termine «totalitarismo» perché privo di validità storica e scientifica. Qualcosa di analogo avveniva nella storia dell'arte, dove tuttavia era più difficile negare le affinità estetiche fra i tre regimi, dove predominò il realismo e il monumentalismo classicheggiante per rappresentare la loro visione del mondo.
Solo dopo il 1990, con la fine del comunismo in Europa, la storiografia è tornata a riflettere sul totalitarismo con atteggiamento scientifico, considerandolo un fenomeno costituito dai regimi partito unico, senza per questo identificarli quasi fossero tronchi di uno stesso albero, ma esaminandoli piuttosto come alberi diversi, che crescendo in una particolare situazione avevano assunto caratteristiche simili.
È tuttavia significativo che la storia dell'arte sia stato il campo dove la riflessione comparativa fra i regimi totalitari si è avviata con maggior impegno, con l'organizzazione di mostre che illustravano la loro produzione estetica, come la mostra «Kunst und Diktatur 1922-1956», organizzata dalla Künstlerhaus di Vienna dal 28 marzo al 15 agosto 1994, e «Art and Power. Europe under the dictators 1930-1945», organizzata a Londra dalla Hayward Gallery dal 26 ottobre 1995 al 21 gennaio 1996, successivamente trasferita a Barcellona e a Berlino.
Queste mostre erano state precedute dalla pubblicazione di un importante studio comparativo sulla produzione estetica dei regimi totalitari, il libro dello storico dell'arte russo Igor Golomostock, L'arte totalitaria nell'Urss di Stalin, nella Germania di Hitler, nell'Italia di Mussolini e nella Cina di Mao (Leonardo, Milano 1990). Da allora si è sviluppato un nutrito filone di studi comparativi sull'arte totalitaria, nel quale si colloca il volume sull'arte di regime di Maria Adriana Giusti, docente al Politecnico di Torino e professore onorario della Xi'an Jiaotong University in Cina.
Senza apportare interpretazioni originali, e nonostante qualche svista (a pagina 16: Giuseppe Bottai non era ministro della Cultura ma dell'Educazione nazionale dal 1936), il volume offre un ricco apparato di immagini, purtroppo non collocate secondo una successione cronologica, che avrebbe consentito di percepire le variazioni di stile nelle diverse fasi dei tre regimi.
Per ciascun regime, le immagini sono divise in sezioni – arte, grafica, architettura – precedute da un'introduzione. Viene così efficacemente documentata la molteplicità delle espressioni artistiche totalitarie, dalla grafica e dal manifesto, alla pittura e alla scultura, al cinema, e soprattutto all'architettura e al progetto urbano che, scrive Giusti, «incidono profondamente sulla trasformazione degli spazi come espressioni multi-scala della visione totalitaria del regime... Le trasformazioni delle capitali, Roma, Berlino e Mosca sono al centro della strategia di affermazione del potere totalitario». Attraverso visioni oscillanti «tra la mitologia del progresso nelle avanguardie e l'antimodernismo nell'ortodossia della cultura di Stato», «filtra la sostanza utopica del sogno totalitario che proietta l'arte ben oltre la ricerca di efficacia realistica o di intenti persuasivi e mediatici».
Nella scelta dello stile estetico dei tre regimi, accomunati dalla concezione dell'arte come strumento di propaganda per diffondere fra le masse la propria ideologia, decisivo fu il ruolo dei loro dittatori, diversissimi per temperamento, formazione, cultura, e per l'atteggiamento verso la creatività artistica. Dei tre, l'unico che aveva ambizioni artistiche era Hitler, aspirante architetto mancato e mediocre pittore di paesaggi negli anni giovanili, e tuttavia convinto di essere un architetto geniale, con una concezione dell'arte condizionata da un convenzionale realismo ottocentesco e dall'ossessiva ideologia razzista.
Il capo nazista intervenne «pesantemente sulle attività artistiche, bandendo il modernismo internazionale e avvalendosi di un unico architetto e di un unico stile», mentre Stalin, che non aveva pretese artistiche ma si considerava comunque un «ingegnere di anime», impose il realismo socialista «come sintesi di cultura e potere, giungendo però al connubio tra costruttivismo e tradizionalismo». Quanto al duce, Giusti lo definisce «più ambiguo nelle scelte, volte a esaltare tensioni, movimento, inarrestabilità degli impulsi, confidando nell'eloquenza dell'architettura come sintesi di tutte le arti e nella cinematografia come migliore arma di persuasione». Ma più che di ambiguità, si può parlare di eclettismo per un politico simpatizzante, fin da giovane, per le avanguardie moderniste, che sentiva affini al suo temperamento e al dinamismo fascista.
Osservando le espressioni estetiche dei tre regimi, dove si staglia ossessiva la figura del dittatore e prevalgono le scene di vita quotidiana animate dal corale entusiasmo di collettività operose e gioiose, non si ha tuttavia l'impressione di una piatta uniformità. Pur nella prevalente retorica del realismo, del gigantismo e del monumentalismo, la creatività individuale è riuscita a farsi strada, a emergere.
Siamo di fronte a una «contraddizione irrisolvibile» tra la libertà creativa e il condizionamento ideologico, come afferma Giusti; oppure siamo di fronte al fatto tutt'altro che contraddittorio, e molto più rattristante: e cioè, che la creatività artistica – anche quella di un grande artista – non è affatto incompatibile con l'adesione convinta al sogno totalitario di dominio e di manipolazione dell'uomo?
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