Da San Francisco a Los Angeles per scoprire quanto manca David Foster Wallace. Leggere le sue opere può ispirare tanto quanto leggere su di lui, come se alcune molecole del suo genio continuassero a fluttuare nell’aria che respiro
"La Repubblica", 24 febbraio 2013
Il tempo meteorologico a San Francisco è incerto, meno clemente di quanto avevo sperato: scrosci di pioggia si alternano a schiarite della stessa brevità—soltanto il vento umido è incessante. Mi trovo costretto a indossare uno sull’altro i vestiti primaverili che avevo previsto per la vacanza, realizzando che un giaccone invernale non è equiparabile alla somma di un qualsivoglia numero di strati estivi. Per di più, la città è spopolata durante il coprifuoco postnatalizio. Percorro a piedi i saliscendi da Marina a North Beach con una sensazione di libertà che si alterna a un’altra di smarrimento: la mancanza di scopo di chi è rimasto chiuso fuori casa.
La
City Lights è tra i pochi negozi aperti, il che conferma in larga parte l’impressione che si tratti ormai di un feticcio per turisti più che di una vera libreria. Ma poco importa: è straordinariamente bella, rifornita e silenziosa (come se i decametri di scaffali in legno assorbissero ogni suono), e la disposizione dei libri suggerisce la chiarezza mentale di chi l’ha concepita, senza rivelarne a fondo il piano.
David Foster Wallace mi scruta dall’alto, dalla copertina di un volume posizionato in modo che
la sua facciona tenga d’occhio gli avventori. La fotografia traslucida è una delle poche in cui sorride e il libro si rivela essere una sua biografia postuma, redatta da tale D. T. Max. «Prendila, t’interessa » suggerisce la mia compagna, che deve avermi visto trasalire. «No — ribatto io —, no, no». Il punto è che mi ero prefissato esplicitamente, dopo il suicidio di DFW nel settembre del 2008, che non avrei ceduto alla tentazione di leggere alcuna sua biografia, così come non avrei considerato le pubblicazioni di lavori che lui non aveva autorizzato—avevo assistito a uno sciacallaggio simile nei confronti di Jeff Buckley finché, a forza di acquistare dischi con versioni pessime delle sue poche canzoni, mi ero quasi disamorato di lui.
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Una citazione di David Foster Wallace inserita nell’installazione
dell’artista finlandese Mikko Kourinki (1977), «Wall Piece with
200 Letters» (2011, Helsinki, Kiasma Museum)
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Nel momento in cui mi trovo alla
City Lights di San Francisco — 26 dicembre 2012 — sono già venuto meno al secondo dei miei propositi (ho letto e riletto quanto emerso dagli svariati e impietosi carotaggi dell’opera di DFW), ma il diktat sulla biografia è ancora solido. Si tratta di una questione di principio, deontologica quasi, oltre che della paura di vedermi sgretolare un idolo davanti agli occhi: il punto è che ogni narratore devolve una parte gigantesca delle proprie energie e del proprio tempo a trovare per ogni opera che produce — per ogni singola riga di ogni singola opera che produce — il giusto livello di trasposizione della sua storia personale: essere troppo avari di sé si traduce quasi sempre in freddezza, in sostanziale disinteresse verso la materia; eccedere comporta altri rischi più gravi, fra cui ossessività, autocommiserazione (quasi sempre di matrice freudiano-regressiva) e dissapori, se non proprio pasticci legali, con parenti o amici intimi. Negli ultimi anni della sua vita, poi, DFW sembrava impegnato a esplorare proprio il pernicioso confine fra privato e finzione letteraria. Nel romanzo a cui stava lavorando e che non avrebbe terminato,
Il re pallido, compare fra gli altri un personaggio di nome David Wallace, con tanto di
Social Security Number, l’omologo del nostro codice fiscale. È plausibile che nell’epoca d’oro del
mémoire DFW volesse smontare il giocattolo dell’ultimo modello d’intrattenimento e guardarci dentro, scoprire quali insicurezze si celavano dietro tanta morbosità da parte del pubblico e una così favorevole disposizione a denudarsi da parte degli autori. Ovviamente, il
mémoire che aveva a sua volta imbastito non era che la parodia di un racconto autobiografico, un resoconto che, nella pretesa esasperata di dichiararsi vero, non faceva altro che mostrare in continuazione la propria falsità strutturale. Che rispetto dimostrerei a DFW e alla sua ricerca, acquistando una biografia postuma che fa piazza pulita di tutti i filtri metanarrativi e se ne infischia del giusto-livello-di-trasposizione? Esco dalla
City Lights con una copia della biografia di D. T. Max stretta fra il gomito e il fianco (titolo:
Every Love Story Is a Ghost Story). Ho comprato anche una vecchia raccolta di Alice Munro,
Runaway, per attenuare il senso di colpa.
A Carmel-by-the-Sea inizio la lettura. Non c’è molto altro da fare in questa cittadina benestante.
La descrizione dell’albergo aveva promesso una piscina riscaldata, che si è rivelata uno stagno dal colore sospetto, e comunque piove. Dalla finestra, oltre la coltre di alberi, balugina un oceano appena più chiaro del cielo. Forse non è soltanto morbosità. Forse è più semplice e anche più limpido di così. La verità è che DFW mi manca. E mi manca con un’intensità maggiore di quella con cui mi mancano, per dire, certe persone in-carne-e-ossa scomparse in modi altrettanto improvvisi/cruenti dalla mia vita, tanto che mi trovo spesso a fantasticare su forme strane di metempsicosi, nelle quali alcune molecole aeree del suo genio e della sua umanità fluttuano attraverso l’atmosfera fino a me, che le inalo, e diventano mie — e lui diventa me. Tutto ciò suona un po’ vergognoso, ad ammetterlo. Ma la disponibilità a innamorarsi dell’irreale tanto quanto del reale mi è sempre apparsa come una premessa essenziale della narrativa. Può darsi si tratti, più precisamente, di un disturbo, una sorta di ametropia del sentimento, per la quale non si riesce a focalizzare esattamente gli oggetti nel campo dell’affetto, a collocarli in profondità secondo quello che si presume l’ordine giusto.
DFW mi manca, sì, mi manca il suo essere-nel-mondo, quindi escogito dei modi per averlo vicino, e l’ultimo che mi si è offerto è questa biografia. Come per i Grandi Amori Romantici, esiste un’età favorevole anche per i Grandi Amori Letterari, e DFW è capitato al centro della mia più fertile: avevo diciotto anni. Le passioni che si instaurano in quella fase tardoadolescenziale, quando il magma della personalità inizia a solidificare, diventano i miti fondanti del nostro carattere culturale, ci restano addosso, ostinate e prive di senso, come quelle cisti sebacee che capita facciano la loro comparsa in punti imprevisti del corpo. Di passioni-cisti io ne avevo una miriade oltre a DFW e al già citato Jeff Buckley: certe serie televisive più strappalacrime del sopportabile come The OC, Tori Amos, Chuck Palahniuk, i frozen cocktail, Kirsten Dunst, il Natale in famiglia, Bret Easton Ellis... Spinto da una voglia iconoclasta di rinnovamento, verso i ventisei anni le sottoposi tutte quante a un check-up severo, casomai nel frattempo qualcuna fosse diventata maligna o invalidante. DFW ha superato il test, Chuck Palahniuk no, ma adesso mi chiedo se dopotutto fosse così necessario e salubre tentare di sbarazzarsi di tutte quelle passioni, magari un po’ ossidate, magari ormai poco rappresentative, che quando ero ancora semiliquido mi fecero palpitare.
È davvero questa la via della nostra realizzazione di adulti, toglierci dal naso tutte le lenti deformanti che da ragazzi ci facevano ingigantire o mortificare gli oggetti (sentimentali) che si offrivano alla nostra considerazione? O questa smania di aggiornare anche i nostri affetti è solo l’ennesima lente deformante che poniamo in cima alle altre?
Ecco il genere di domanda sulla quale DFW avrebbe facilmente costruito un racconto ricorsivo
di venti o più pagine: la storia di un ragazzo che, nel tentativo di guardare con onestà a ciò che ne è ormai dei suoi amori del passato, fa del suo meglio per massacrarli, con il risultato di aumentarne sempre di più il valore mitico e quindi l’indistruttibilità. Ogni volta che nelle storie di DFW compare qualcosa di analogo a una minuscola cisti sebacea, puoi stare certo che quella cisti si accrescerà — proprio nel tentativo di estirparla— fino a sfigurare l’intero organismo. Tutte le serie ricorsive costruite da DFW sono altamente divergenti, la direzione è sempre quella dell’aggravarsi perpetuo cosicché, una volta avviate, possono essere interrotte solamente da un atto esterno, violento, qualcosa di simile a ciò che ci succede quando il nostro computer «va in palla» e inizia a presentare con insistenza lo stesso messaggio poco comprensibile di errore, accompagnato da quel suono che ha qualcosa di apertamente accusatorio, e noi ci rendiamo conto che non siamo in grado di fermare quanto sta succedendo, che siamo del tutto inermi e fra un attimo lo schermo potrebbe ricoprirsi di lettere e numeri o diventare inesorabilmente blu, quindi premiamo con forza il pulsante Power e se neppure quello funziona stacchiamo la spina dalla presa di corrente, percorsi— noi, non più il computer—da una scarica elettrica di terrore. La sola via d’uscita dalle ricorsività di DFW è lo spegnimento, che in certi casi estremi, come quello del manipolatore seriale protagonista del racconto Caro vecchio neon o in quello assai più realista della sua vita, coincide con la morte — con il suicidio.
A diciotto anni, il modo di procedere di DFW mi colpì come un esercizio di onestà dissacrante
e perfetto, il genere di demistificazione che andavo cercando in quegli anni di solidificazione-del-magma-della-personalità. Il senso tragico che stava alla base dei suoi ragionamenti si accostava bene con quello residuale della mia adolescenza; lo sfoggio di intelligenza, poi, era proprio il traguardo che mi ponevo a quel punto. Tutto questo stabilì la nostra affinità segreta — quasi ultraterrena —, indusse la crescita della mia passione-cisti più che per qualunque altro scrittore mi fosse capitato di leggere fino a quel momento.
E, anni dopo, rese il suo suicidio doloroso quanto un tradimento personale.
Nel suo pseudo-mémoire, oltre al codice fiscale, DFW aveva riportato per intero anche il suo indirizzo. Durante un’incursione dentro una Books Inc. ho ritrovato la pagina dove è scritto e l’ho ricopiato sul retro di un ticket di parcheggio: 725 Indian Hill Bldv., Claremont. Obbligo i miei compagni di viaggio a seguirmi in quel pellegrinaggio un po’ macabro attraverso la periferia senza fine di Los Angeles. Non protestano neppure, devono ormai avere capito quanto la questione sia importante e controversa, ad altissimo rischio di scontro verbale.
Arriviamo a Claremont al crepuscolo. L’aria si è rinfrescata di colpo. Le aiuole nello spartitraffico di Indian Hill Boulevard sono tutte fiorite, incredibilmente curate. La casa al numero 725 non ha nulla in più o in meno delle altre, soltanto il portone del garage—il garage dove DFW si è ucciso— mi colpisce per la sua larghezza, ma può darsi che si tratti di una suggestione. Nel cortile c’è un albero di Natale composto di sole palline, un cono da cui fuoriesce un cavo della corrente — l’albero è spento. Sul lato opposto due limoni e un mandarino sono carichi di frutti. Il prato è stato sistemato da poco, come tutti quelli del circondario, intravedo ancora i segni paralleli del tosaerba. Avanzo di qualche passo, violando la proprietà privata e l’intimità degli sconosciuti che ora vivono qui. I miei compagni di viaggio si sono allontanati, come per rispetto. Vorrei compiere qualche gesto simbolico, magari rubare un sasso dall’acciottolato che corre lungo il marciapiede, ma sono ancora abbastanza in me per desistere. Tocco solo uno dei limoni e poi m’incammino verso la macchina.
Prima di salire faccio la pipì contro un acero, di fretta: è il genere di quartiere dove temi possano arrestarti per avere urinato contro un tronco. Il giorno seguente, dentro il parco di Joshua Tree, mi perdo di nuovo nelle fantasticherie di metempsicosi. L’atmosfera del luogo contribuisce in larga parte: un deserto roccioso dove la notte—puoi scommetterci—gli arbusti così distanziati parlano l’uno con l’altro, al riparo da sguardi umani. La natura qui sembra in uno stato di quiescenza, pronta a ritornare quella prospera che era un tempo. Inizio a pensare ai joshua tree e ai cactus e alle palme giganti come a incarnazioni di morti, la cui forma specifica dipende dalle qualità possedute in vita. L’albero che attribuisco a DFW è un’impalcatura di tronchi e rami spogli, con la corteccia elegantemente attorcigliata su se stessa, un albero che non ho mai visto dalle nostre parti, complicato eppure razionale contro il cielo azzurro. Mi faccio scattare una foto lì accanto, poi cerco di rubargli l’energia, abbracciandolo: conosco persone che con gli alberi fanno così.
Ciò che devo ammettere lungo la strada di ritorno verso Palm Springs, e con un po’ di delusione per me stesso, è che leggere DFW mi ispira almeno quanto leggere di DFW. Seguire le sue vicissitudini mi suscita la stessa irreprensibile voglia di sedermi alla scrivania e di scrivere a profusione, come avvenne dopo La scopa del sistema quando, senza premeditazione alcuna, mi avventurai nei miei primi goffi racconti. E non è soltanto questo: DFW — i suoi libri e, scopro ora, anche i libri che parlano di lui — mi spingono a scrivere come lui, con una forza di attrazione plagiatoria che nessun altro autore ha mai più esercitato su di me. Dev’essere per via di quella sua spacconeria irritante e così fascinosa, della sua smania di essere a tutti i costi più lungo, digressivo e interconnesso di quanto sia davvero necessario, della sua esigenza di attraversare sempre tutti i livelli di profondità di un fenomeno fino a sbattere il sedere contro il cemento armato dell’unica verità fondamentale sottesa a tutti: la consapevolezza, in questo mondo, di essere soli e irraggiungibili.
Sul volo San Francisco-Zurigo dove con ogni probabilità contraggo l’influenza virale con complicazioni urinarie che mi terrà a letto nei successivi quattro giorni, termino di leggere Every Love Story Is a Ghost Story. Nelle ultime pagine si avverte l’imbarazzo di D. T. Max nel fare i conti con il suicidio di DFW. Il biografo sceglie la via più sobria: poche frasi di storia medica, molto nette, che accreditano in pieno la tesi della cessazione volontaria del Nardil da parte di David dopo anni di trattamento, e del suo conseguente tracollo. Il finale lo conoscevo già, eppure ha il potere di annientarmi. Complice il jet-lag, la prima notte a casa non mi addormento fino alle cinque del mattino. Ho una sola consolazione in mezzo al fluire dei pensieri: sembra che la casa di DFW che ho visitato non fosse davvero quella dove si è tolto la vita. Dopo essere vissuti in affitto al 725 di Indian Hill Blvd., lui e la moglie ne acquistarono un’altra non troppo distante. Il portone del garage che ho visto era solo un normale portone di garage, dal quale DFW è entrato e uscito insieme ai suoi cani. Saperlo è abbastanza per farmi sentire meglio.
Di David Foster Wallace (1962-2008) sono stati ripubblicati presso Einaudi Stile libero i romanzi «La scopa del sistema» e «Infinite Jest» (già uscito presso Fandango), le raccolte di racconti «Brevi interviste con uomini schifosi», «Oblio» e «Questa è l’acqua», la collezione di saggi «Considera l'aragosta». Nel 2011 sono usciti il romanzo inedito e incompiuto «Il re pallido», sempre presso Einaudi, e «Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito», presso Codice edizioni. Nel 2012 Einaudi ha pubblicato la nuova edizione di «La scopa del sistema» (Super ET) e «Il tennis come esperienza religiosa» (Stile libero). Presso Minimum fax è uscito «La ragazza dai capelli strani» (2003) e il reportage «Una cosa divertente che non farò mai più» (2001).
Il testo che pubblichiamo di Paolo Giordano compare, in forma di saggio più ampio, nel numero 61 di «Nuovi Argomenti» che sarà in libreria dal 12 marzo 2013. Per il sessantesimo anniversario della rivista è prevista una nuova veste grafica e il lancio di un sito web.