domenica 10 marzo 2013

Arte e follia


L'autoritratto della follia


Dalì accanto allo schizofrenico Zinelli, Basquiat accanto all'ossessione muta di Fusco

Il percorso intellettuale degli «artisti ufficiali» e l'urgenza istintiva degli «alienati»

Francesca Ronchin

"Corriere della Sera - La Lettura", 10 marzo 2013

Un foglio da disegno come unica via d'uscita. Non dalle mura del manicomio ma dalla costrizione della propria mente. Ed è così che il pensiero ricorrente esce dal corpo e diventa tela. Quelle raccontate dai dipinti di «Borderline», in mostra al Museo dell'Arte di Ravenna, sono storie di ossessioni dove la forza espressiva è così prepotente che nel 1945 il pittore francese Jean Dubuffet conierà per loro il termine Art Brut, arte grezza, a indicare le opere di pazienti psichiatrici autodidatti non soggetti a canoni e correnti estetiche.
Negli ospedali dell'epoca era pratica comune far dipingere i matti. Si parlava di «arte psicopatologica», un metodo per calmare i pazienti che nella pittura canalizzavano la parte più violenta di sé e, per i medici, un modo per arricchire diagnosi e cartelle cliniche con quella lente d'ingrandimento della psichiatria dell'epoca secondo la quale i disegni non erano altro che sintomi. Per questo, Carlo Zinelli (1916-1974), internato nel San Giacomo di Verona, trasporta su tela l'evento che ha scatenato la sua schizofrenia, la guerra civile spagnola. E quindi il campo di battaglia, macchinari bellici, file di piccoli uomini neri, soldatini e piccoli preti, con una serialità che assurge a tratto tipico della schizofrenia. Psicosi per eccellenza, la malattia è quella della mente divisa, dove lo svolgimento logico del pensiero si sfilaccia in uno stato di totale scollegamento dalla realtà.
La sua è schizofrenia paranoide e il mondo è vissuto «come ostile, votato alla sua rovina», scrive ne I miei matti Vittorino Andreoli che scopre l'abilità artistica di Zinelli e lo fa conoscere a Dubuffet. Dipingendo, le condizioni di Zinelli migliorano, ma il delirio di persecuzione riempie la tela in ogni suo centimetro quasi a voler tenere insieme una realtà che sfugge. Unico spazio vuoto quello ricavato da stelle e quadratini che perforano le figure a racconto di un corpo che Zinelli vive come lacerato.
Gli incubi sono quelli di un veterano di guerra che soffre di disturbo da stress post traumatico, ma in Sylvain Fusco diventano quelli del rimorso e dell'ossessione amorosa. Non ancora ventenne Sylvain commette un delitto passionale cui seguiranno il carcere e il manicomio dove si chiuderà in un mutismo totale. Sulle sue tele ricorre un volto di donna dai capelli corvini e la bocca a forma di cuore. Una, cento volte fino a riempire tutto lo spazio. Perché dietro le tele di ogni «matto» sembra di ritrovare la variazione di un unico identico tema, ripercorso senza tregua in un circuito cerebrale che è ormai un solco. Un loop mentale che sforna repliche, seriali, dello stesso punto di partenza, quello dove la sua mente, e la sua vita, si è interrotta.
Quella di Aloise Corbaz (1866-1964) si cristallizza nella cappella privata di Guglielmo II. Un amore solo immaginato che inizia cantando per il Kaiser e che non le darà pace fino a diventare delirio passionale e solitario vissuto nel segreto dei bagni del manicomio dove Aloise dipinge su carte di fortuna a volte cucite con ago e filo. Resta in isolamento quasi 50 anni, sino alla fine dei suoi giorni, ma anche in tarda età il suo disegno è quello di una bambina che aspetta il suo principe azzurro in una regressione che oltre che psichica è pittorica. Se in Aloise si ritrova l'arte dei bambini, in Adolf Wolfli (1864-1930) si ritrova quella dei primitivi. Dopo un'infanzia di abusi in una famiglia di alcolisti, viene accusato di pedofilia ed entra in manicomio a 31 anni. Inizia a dipingere per 8 ore al giorno, ininterrottamente. Una produzione quasi compulsiva, geometrica, in un estremo tentativo di mettere ordine in un mondo che la psicosi rende incomprensibile. Tra deliri e allucinazioni, presenze che gli altri non sentono e non vedono, gli schizofrenici dell'epoca tendevano ad autoisolarsi. «La pittura invece — spiega Giorgio Bedoni, psichiatra e curatore della mostra — permetteva a chi è nessuno di diventare uno», in un processo di individuazione senza il quale la follia sarebbe stata assoluta e incontrollabile. Anche Federico Saracini cerca di mettere ordine nella sua testa e, dalle stanze del San Lazzaro di Reggio Emilia, realizza cartografie per spiegare a se stesso e agli altri pazienti le teorie divine che non gli danno pace. La diagnosi è quella di «delirio ambizioso», Saracini è convinto di avere la chiave per risolvere i mali del mondo. Se l'elemento religioso è comune a molti psicotici, nel caso di Madge Gill (1882-1961) sfocia nell'esoterico. Convinta di essere una medium, organizza sedute spiritiche e dipinge in modo ossessivo sempre un unico soggetto. Il volto di una giovane donna, forse il fantasma della figlia nata morta o dello spirito guida da cui si sentiva posseduta. Non viene internata. A salvarla dalle diagnosi forse l'aver dato un nome al proprio mondo visionario prima che a farlo fosse la medicina. «All'epoca le diagnosi erano sommarie — spiega Bedoni — e i manicomi strutture di contenimento sociale. Questa mostra vuole fare un passo avanti, le tele non sono semplici sintomi. In questa ottica, il termine borderline, prima che una condizione clinica, indica una condizione antropologica critica della modernità dove le categorie di normalità e follia sono campi aperti».
Aggiunge Claudio Spadoni, direttore scientifico del museo, che la mobilità dei confini riguarderebbe anche l'area della creatività. «Per questo accanto ai pittori "matti" che negli anni 70 chiamavano outsiders abbiamo apposto artisti ufficiali come Dalì, Basquiat e Moreni». A distinguere gli uni dagli altri sarebbe soprattutto il grado di consapevolezza che negli artisti manicomiali è totalmente assente. Non solo. Se negli artisti ufficiali il surreale è raggiunto attraverso un percorso intellettualizzato, negli alienati sarebbe un'urgenza istintiva, quasi di sopravvivenza che si esprime attraverso forme basiche e primordiali. Le immagini qui sono claustrofobiche, quasi manca l'aria, non c'è cielo, la tela fotografa un'esistenza interrotta dove lo spazio del manicomio è bidimensionale, senza prospettiva. L'unico matto che riusciva a dipingere sprazzi di blu e terze dimensioni è Ligabue (1889-1965). Anche lui soffriva di schizofrenia, e i suoi autoritratti portano le tracce di tumefazioni dovute a comportamenti autolesionistici. In manicomio però aveva trascorso solo pochi anni e il contesto sociale in cui viveva in qualche modo l'aveva accolto e forse compreso.

Borderline: l’arte estrema che nasce ai confini della follia

Fabrizio D’Amico

"La Repubblica", 10 marzo 2013

Ravenna. La vera arte è sempre là ove non la si attende. Là ove nessuno pensa a lei, né pronuncia il suo nome”. Così ragionava Jean Dubuffet nel 1949, vergando un testo, come molti suoi altri, di capitale rilievo e fascino: “L’arte bruta preferita alle arti culturali”, con il quale presentò alla critica (perplessa) e al pubblico parigino (entusiasta), in un sottoscala d’una famosa galleria d’avanguardia, l’“arte dei folli” in una mostra che segna un passo decisivo verso la storia di quella che Dubuffet stesso battezzò l’“Art Brut”. Giorgio Bedoni e Claudio Spadoni, che assieme a Gabriele Mazzotta hanno curato la mostra oggi aperta al Mar di Ravenna “Borderline. Artisti fra normalità e follia. Da Bosch a Dalí, dall’Art Brut a Basquiat” (fino al 16 giugno, catalogo Mazzotta) – allargando molto, come si impara già dal sottotitolo della mostra, il territorio della loro analisi – ci ricordano che anche André Breton, padre e custode del surrealismo, affiancò per un tratto Dubuffet nell’attenzione posta alla produzione artistica non canonicamente espressa da chi non fosse individuato come “uomo di senno e di genio”. E, oggi esposte, le opere di Masson, Ernst, Dalí, Matta – tra gli altri – stanno a testimoniare le tangenze che lo stesso surrealismo registrò con l’art brut. Ma infine, solo di tangenze si tratta, indotte dall’impiego comune di alcuni meccanismi d’immagine, primo fra tutti l’automatismo, da parte dell’una e dell’altra poetica. In realtà, mentre Breton continuò a considerare l’arte “dei naif, dei pazzi, dei bambini, dei medium” come una costola eventuale, se non deviante, della rivoluzione surrealista, fu solo Dubuffet a darle dignità piena e uno statuto perfettamente autonomo rispetto a quello dell’“art culturel”, che la sua devozione alle forme del passato rendeva a suo dire paragonabile a quella “del camaleonte e della scimmia”. E fu solo Dubuffet a gridarle contro, a difesa della produzione degli alienati: “chi è normale? Dov’è il vostro uomo normale? Mostratecelo! L’atto d’arte, con l’estrema tensione che implica, l’alta febbre che l’accompagna, può mai essere normale? ” L’arte della follia ha molte volte, anche in Italia, suscitato attorno a sé interesse, ed è stata oggetto di seducenti indagini (ricordiamo solo la più recente, che fruttò una mostra ordinata da Vittorio Sgarbi a Siena): ma occorre dire che talmente ricca e diramata è la sua vicenda che, scavando nei territori di quella creazione clandestina e abusiva, non poche mostre diversissime l’una dall’altra si potrebbero su di essa immaginare. Sbilanciate indietro nella storia (fin dentro a quel medioevo mostruoso e fantastico evocato da Jurgis Baltrusaitis) ; o incentrate sul transito fra XIX e XX secolo, quando s’incrementano – fra tante resistenti superstizioni – le conoscenze scientifiche sulla malattia mentale; o infine distese sino ad un più recente passato, come sembra prediligere la mostra odierna quando propone le opere “folli” di Baj, di Arnulf Rainer, di Basquiat o del tardo Moreni; o, più ragionevolmente, taluni esempi recenti di arte nata ai margini della cultura ufficiale (come quello di Gaston Teuscher), e perciò entrati a far parte della più importante collezione mondiale d’art brut, nata a Losanna per volontà di Dubuffet. Ma è comunque attorno alla gigantesca personalità del suo propugnatore, e in particolare negli anni d’immediato dopoguerra e nel successivo decennio, che si concentrano gli episodi di più autentica vicinanza fra l’arte ufficiale e quella della devianza, nata nell’isolamento di un ricovero coatto: con le opere stesse di Dubuffet (‘Arabe en prière’, ‘Arabe au palmier’, entrambe del 1948), di Wols, di Brauner. Negli stessi anni si ricoverano alcuni degli esempi più tipici di questa infanzia della pittura, nata per avventura o per miracolo nel recinto chiuso di un manicomio, di una prigione: da quelli più noti, come è il caso di Aloïse Corbaz e delle sue carte cucite l’una all’altra, ricolme di coloratissimi episodi, di curve aggraziate e di rosse labbra che paiono pronte al bacio; carte gioiose e sensuali, come quelle d’un Matisse d’anni Trenta, non fosse per quegli occhi sempre ciechi che imbambolano le loro figure. Di qui fino alle personalità meno note, come quella di Pietro Ghizzardi. E fino all’immancabile caso di Ligabue, cui è destinata una sala. Scriveva Gabriella Drudi che “i bruts lavorano nel buio, non nel festoso raffigurare dei naifs”: pure, appare non ridondante la presenza di Ligabue in questa mostra, intesa a cercare un bilico fra la luce della ragione e il turbamento dell’animo.


Quadri di allucinazione dipingere sotto le droghe

Laura Putti

PARIGI Se non ci fossero state le droghe, l'arte e la letteratura forse non esisterebbero. O, almeno, sarebbero diverse. E' quello che prova a dimostrare, e con un certo successo, la bella esposizione che fino al 19 maggio abita La Maison Rouge, alla Bastiglia. Per la vastità dell'argomento la mostra, dal titolo “Sous influences. Arts plastiques et produit psychotropes”, avrebbe forse figurato meglio in un grande museo come il Centre Pompidou. “Ma le droghe sono ancora un fantasma della nostra società” dice Antoine Perpère, commissario dell'esposizione, uomo dalla doppia vita: dagli anni 80 lavora nel sistema sanitario francese con specializzazione, appunto, sulle droghe – cura, accompagnamento e prevenzione - ma è anche artista. Alcune delle sue opere sono qui esposte. Perpère ha scelto di accogliere il visitatore con una frase di Jean Cocteau. “L'oppio permette di dare forma all'informe” scriveva il poeta nel 1930 nel suo libro “Opium”. “Nel '23, a vent'anni, morì Raymond Radiguet, suo compagno dell'epoca. Cocteau iniziò a fumare oppio per sfuggire alla tristezza. Rimase oppiomane per tutta la vita” dice il commissario. Tra le opere più significative – 250 in tutto, 90 artisti - c'è una tela di Erro del '76, “Sulla terrazza (Fes) ”, nella quale un uomo fuma un narghilé sotto un cielo stellato nel quale vola un'astronave. Ma più dirette sono le opere di Arnulf Reiner, di Jean-Jacques Lebel o dello sperimentatore Henri Michaux i quali, tra gli anni 50 e i 60 dipinsero i loro stati alterati da sostanze varie (psilocibina, LSD, peyote, mescalina), trip che a volte affrontavano in presenza di psichiatri. Tra le curiosità un autoritratto di Artaud, un disegno del dottor Charcot (1853, sotto hashish), un olio su carta piuttosto psichedelico firmato a quattro mani nel '57 da Ginsberg, Corso, Orlovsky e Gherasim Luca, e la proiezione di un documentario di Gianfranco Rosi: “El sicario”, nel quale un uomo messicano incappucciato parla dell'intera filiera legata alle droghe nel cartello di Ciudad Juarez e racconta come, sotto l'effetto della cocaina, abbia ucciso più di 500 persone. Non potevano mancare opere di Basquiat, di Damien Hirst (le celebri scatole di medicinali), di Takashi Murakami e una installazione di funghi rossi a pois bianchi della giapponese Yayoi Kusama. Bellissime sono le tavole di fumetti di Batan Matta (Sebastian Matta-Clark, '43-'76, gemello di Gordon, '43-'78). “Il fumetto avrebbe meritato una sezione a sè” dice Perpère. E puntualizza che, quando accanto al titolo di un'opera di “Sous influences” è specificata la droga utilizzata, questo non vuole dire che l'artista abbia dipinto nello stesso momento in cui la sostanza faceva effetto. “Non è possibile. Non ci si arriva, tutto va troppo veloce e il corpo non potrebbe stare dietro alla mente, a tutte quelle idee cosmiche, a tutti quei colori”.


L’alcolico Modigliani nella gang dei maledetti

Armando Besio

Ci sono i ritratti degli amici: il mercante d’arte Zborowski, il corniciaio Lepoutre, il pittore Soutine, compagno di bevute come Utrillo, alcolista nato, del quale si diceva che la nonna contadina lo avesse svezzato con biberon riempiti di vino. «Solo a stare vicino a lui, Modigliani sarà già ubriaco» sibilava il perfido Picasso quando li incontrava per strada a Montparnasse. E ci sono i ritratti delle amiche, fedeli compagne e tormentate amanti: la poetessa inglese Beatrice Hastings («ci è capitato di azzuffarci in modo veramente epico, lui armato di una caraffa, io di una scopa»), e La ragazza coi capelli rossi, la modella Jeanne Hébuterne, suicida a 22 anni, incinta del loro secondo figlio, giù dalla finestra del quinto piano, all’indomani della morte di Modì, consumato da alcol e droghe, stroncato a 35 anni (nel 1920) da una meningite. Modì suona come maudit, maledetto. Un destino nel (sopra) nome. Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter è il titolo della mostra allestita fino all’8 settembre al Palazzo Reale di Milano. Prodotta dal Comune con “24 ore cultura” e Arthemisia Group, punta a replicare il successo di Picasso, che ha appena chiuso con la cifra record di 550 mila visitatori (oltre 4000 al giorno). Arriva dalla Pinacothéque de Paris, curata dal direttore Marc Restellini. Allinea 120 opere di 26 artisti, tutte proprietà degli eredi del collezionista Jonas Netter. Ebreo alsaziano trapiantato a Parigi, rappresentante di commercio, benestante ma non ricco, adora gli Impressionisti, che però costano troppo. L’incontro col mercante polacco Leopold Zborowski lo introduce nella comunità bohemienne di Montparnasse, dove lavora un gruppo di pittori di talento ancora sconosciuti e perciò a buon mercato. Molti ebrei, in fuga dai progrom antisemiti dell’Est Europa. Quasi tutti squattrinati e sull’orlo di una crisi etilica. «Spiriti tormentati che si esprimono in una pittura che si nutre di disperazione» (Restellini), scandalizzano gli amici benpensanti di Netter («cosa te ne fai di queste porcherie?! ») che invece crede in loro e ne diventa generoso mecenate. È uno dei primi a offrire un contratto a Modì: 15 franchi al giorno, più rimborso spese per le tele, i colori e le modelle, in cambio dell’esclusiva sui quadri. Il ritratto di Netter dipinto da Moise Kisling (stessa posa malinconica del Dottor Gachet di Van Gogh) campeggia nella prima sala, accanto a uno dei popolari scorci parigini di Utrillo e alle Grandi bagnanti di André Derain, sorelle delle Demoiselles d’Avignon di Picasso, testimoni della comune passione per l’arte primitiva africana. Utrillo (17 opere), Modigliani (17), Valadon (15) e Soutine (20) sono gli artisti più rappresentati. Di Modì, oltre agli amici e alle amanti, sfilano una accanto all’altra La bella spagnola, Elvire col colletto bianco (testimonial della mostra) e la Fanciulla in abito giallo. Suzanne Valadon, modella e amante di molti artisti, qui si conferma buona pittrice in proprio di nudi, ritratti e paesaggi (una luminosa veduta del villaggio di Corte, in Corsica). Chaim Soutine, il più “ maledetto” del gruppo, è anche il titolare della sala più emozionante. «È brutto e sporco» lamenta la moglie di Zborowski. «Fa veramente schifo» dice l’impietoso Chagall. Beve troppo, si lava poco, si soffia il naso nelle mani. Ma che pittore. La pennellata espressionista, disfatta come la sua anima, accende gli occhi spiritati della Pazza, accarezza la Bambina col vestito rosso, sfida Rembrandt (visto al Louvre) in una rivisitazione del Bue squartato che gli costa una denuncia dei vicini, disperati per il fetore della carcassa. Accanto ai famosi, altri pittori meno noti, tra cui Ebiche, Kremegne, Solà, Chanterov, Haiden, Duray, Fournier, Paresce. Efficace Corrado Augias (anche biografo di Modigliani, l’ultimo romantico) nel ruolo di cicerone, in audioguida e in video. Catalogo più aneddotico che scientifico: molte curiosità sugli artisti, poche notizie sulle opere.

1 commento:

  1. follia, devianza, creatività, malattia, droga......
    tuttavia "l'attività artistica poi richiede un momento di formalizzazione....."
    Ed è ciò che, miracolosamente, accade.
    http://www.artonweb.it/nonsoloarte/artecreatfollia/cover.htm

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