sabato 9 marzo 2013

Von Trotta: così è nata la “banalità del male”


Donne che cambiano il mondo: Hannah Arendt

Von Trotta: così è nata la “banalità del male”
In anteprima al Bif&st il film sulla filosofa, 
incentrato sui reportage dal processo contro il nazista Eichmann

Fulvia Caprara

"La Stampa",  9 marzo 2013

Da una parte un uomo «semplicemente incapace di pensare», dall’altra una donna che fa l’esatto opposto giungendo, proprio per questo, a capire la motivazione di uno dei principali esecutori materiali dell’Olocausto, coniando una definizione che oggi abbiamo fatto nostra, ma che allora, pronunciata nel bel mezzo del processo in Israele al criminale nazista Adolf Eichman, suonò offensiva e provocò reazioni indignate. Per la prima volta la filosofa ebreo-tedesca, inviata del «New Yorker» Hannah Arendt parlò di «banalità del male» sostenendo che gli orrori di cui Eichman si era macchiato avevano una semplice, agghiacciante ragione: «Continua a ripetere che non ha fatto niente di sua iniziativa e che ha solo obbedito agli ordini. Ci troviamo davanti a un essere umano che rifiuta di considerarsi una persona in grado di pensare». Una regressione spaventosa: «L’inabilità di pensare - dice Harendt ai suoi studenti durante una lezione chiusa da un lungo, fragoroso applauso - permetterebbe a tanti uomini di comportarsi come lui. E invece tutto sta nella capacità di dividere il giusto dallo sbagliato, il bello dal brutto. Pensare mette in salvo le persone».
Non era facile, racconta Margarethe von Trotta, regista di Hannah Arendt, in cartellone al Bifest, in programma a Bari dal 16 al 23 marzo, costruire un intero film su un materia impalpabile come l’attività del cervello: «Come si filma una donna che pensa? È la stessa sfida che si ripropone ogni volta che facciamo un film su personalità intellettuali». La scelta dell’interprete era imprescindibile: «Ho voluto a tutti i costi che la protagonista fosse Barbara Sukowa, sapevo che aveva le doti per interpretare una donna intelligentissima, una filosofa impegnata nei suoi ragionamenti, che parlava inglese con un marcato accento tedesco. E infatti ci è riuscita». Prima di girare, racconta von Trotta, è stato necessario un lungo lavoro di documentazione: «Abbiamo anche incontrato persone che hanno conosciuto Arendt». In Germania il film è uscito otto settimane fa e ha avuto un gran successo: «Un miracolo, visto che non si tratta certo di un blockbuster americano». La narrazione si snoda dal ’60 al ’64, dall’arresto di Eichman alla sua esecuzione, ma per rappresentare la figura dello sterminatore nazista von Trotta ha deciso di ricorrere a immagini di repertorio, così il bianco nero della verità irrompe nel tessuto di un racconto che descrive anche l’ambiente familiare e amicale di Arendt, il marito amatissimo Heinrich Blucher, il suo ex-professore ed amante Martin Heidegger, l’amica Mary McCarthy: «Non credo che alcun attore sarebbe stato in grado di provocare nel pubblico le reazioni scatenate dalla vista del vero Eichman. La miseria, la mediocrità, il linguaggio burocratico, il suo essere un servo... no, nessun interprete avrebbe potuto, e se l’avesse fatto sarebbe spiccata solo la sua bravura». Così, nel film, Arendt osserva le immagini del processo sui monitor di una sala stampa, mentre sul grande schermo risalta la gelida compostezza di un uomo capace di tutto: «Dovevo eseguire gli ordini, se poi la gente moriva, io comunque dovevo continuare a obbedire». I testimoni spesso non reggono ai faccia a faccia, svengono, scoppiano a piangere, vengono accompagnati fuori: «I campi di concentramento - osserva Arendt in una scena - erano stati edificati sulla convinzione che la gente, quella gente, non fosse necessaria».
Le sue analisi provocarono il putiferio, come se levare al Male la su aura di grandezza fosse di per sè un delitto, oppure, peggio, un modo per ridimensionare le colpe dell’imputato: «Hannah era convinta che solo il Bene può essere radicale, che il Male non ha radici nel profondo dell’animo, che quindi non ci sono Satana o Mostri, ma solo persone senza carattere che in certe condizioni e in certi sistemi diventano suoi collaboratori». Dopo la pubblicazione dei primi reportage Arendt divenne oggetto di persecuzioni, lettere anonime in cui veniva definita «puttana nazista», commenti che la descrivevano come una donna «arrogante e priva di sentimenti», voltafaccia del collegio dei professori universitari che l’avevano sempre sostenuta e perfino dei più cari e affettuosi amici ebrei. Era il prezzo della verità, sempre altissimo: «Come altre donne che ho raccontato al cinema - dice Von Trotta Hannah Arendt aveva un suo principio che la guidava in ogni azione, “voglio capire”. Un principio che si adatta perfettamente ai miei film e anche a me stessa».

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