sabato 9 marzo 2013

Cubismi


Al Vittoriano di Roma 
una mostra che mette insieme opere di pittura, poesia, design, architettura


Così all’inizio del secolo scorso nacque una nuova estetica destinata a cambiare il Novecento

La rivoluzione di Picasso che contagiò ogni linguaggio

Lea Mattarella

"La Repubblica",  8 marzo 2013

«Il Cubismo ha scomposto forme esistite per secoli e ne ha utilizzato i frammenti per creare nuovi oggetti, nuovi modelli e, in definitiva, mondi nuovi». Chi parla è Diego Rivera, muralista messicano, che non è rimasto immune al fascino del movimento nato a Parigi dalle intuizioni di Pablo Picasso e Georges Braque. La mostra Cubisti Cubismo aperta da oggi fino al 23 giugno al Complesso del Vittoriano, curata da Charlotte N. Eyerman in collaborazione con Simonetta Lux, realizzata da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia (catalogo Skira), vuole proprio rintracciare tutti i possibili cubismi che si diffondono nel mondo come un virus che trasmette modernità, innovazione, rovesciamenti di forme e spazi. Per questa ragione è costruita con un doppio passo: da una parte ci sono i cubisti, cioè gli artisti che hanno sperimentato il nuovo linguaggio sulle tele, sfaccettando oggetti, figure e paesaggi, mettendo insieme dinamismo, simultaneità e un imperioso desiderio di capire la realtà attraversandola, scomponendola e riassemblandola secondo un nuovo principio della visione. Dall’altra la rassegna va a caccia, con esiti sorprendenti, di diverse tracce di cubismo nelle varie discipline: dalla poesia al cinema, dall’architettura al design, dal teatro alla moda. Per dirne una: l’esposizione rivela una Praga inedita con fotografie, modellini, progetti (in particolare di Pavel Janák) che nascono proprio dalla rottura della forma iniziata a Parigi tra il 1908 e il 1909. È il critico Vauxcelles che utilizza per primo la parola “cubi” parlando di Brauqe. Non vuole certamente elogiarlo, ma gli artisti sono più avanti di chi li critica e si appropriano del termine facendolo diventare sinonimo di avanguardia. E qui il senso della loro gioiosa sfida si vede nei tessuti (Sonia Delaunay), nella musica, nelle parole (Apollinaire), sul palcoscenico (Léger e Picasso), oltre che, naturalmente, nei quadri. Ad accogliere il visitatore è la voce di Gertrude Stein che legge If I told him. A portrait of Picasso, una poesia dedicata all’artista spagnolo e pubblicata nel 1924 su Vanity Fair.
Diciotto anni prima Picasso l’aveva ritratta in un quadro- icona. Se lì il cubismo era ancora in fase di divenire, gli scoppiettanti versi della scrittrice americana ne sono l’esplosione sonora e il suo approdo in letteratura. Qualche anno dopo la Stein scriverà il suo celebre saggio sul pittore spagnolo e nell’Autobiografia di Alice Toklas farà dire all’amica di aver conosciuto solo tre “geni di prima classe”: Pablo Picasso, Alfred Whitehead e – perché no? – la stessa Gertrude.
Di Picasso in mostra ci sono diverse opere che raccontano le svolte, i passaggi, il suo cammino tra differenti momenti del movimento di cui questo spagnolo, arrivato a Parigi per conquistarla, è sicuramente il più grande esponente. C’è una figura che sembra una maschera e nasce dalla scoperta dell’arte africana che, come lui stesso ha dichiarato, lo trasforma in uno “sciamano”. E poi un nudo femminile tutto spigoli e contorsioni e un capolavoro dipinto tra il 1912 e il 1913, Chitarra e violino che fa venire in mente Jean Cocteau e il suo sogno di sentire la musica delle chitarre di Picasso.
Accanto ecco il Violinista di Braque che dimostra come ci sia stata una stagione del cubismo severa, ponderata, addirittura matematica. Non a caso Braque, che qui è rappresentato, tra le altre cose, anche con un paesaggio di ispirazione cézanniana che trasforma la natura in un mondo di cubi, sosteneva di amare «la regola che corregge l’emozione». E per tornare a Picasso la mostra si chiude con la sua Donna accovacciata del 1958 che dimostra come, molti anni dopo, l’artista torni a rileggere se stesso, con la libertà che lo contraddistingue nel corso di tutta la sua lunghissima carriera. Da questi due incorreggibili innovatori parte una vera e propria rivoluzione. In Francia Albert Gleizes e Jean Metzinger scrivono Du Cubisme.
E i due teorici mostrano visivamente il loro sodalizio tra le sale del Vittoriano con il bellissimo ritratto che il secondo fa del primo: costruito per piani paralleli, si rivela geniale nel bianco e nero interrotto da una sottile striscia in cui compare il colore in cui lo sguardo del fruitore e quello dell’effigiato si incontrano. Un effetto che ha qualcosa di cinematografico. E infatti eccolo, il cinema: in primo luogo quello di Fernand Léger che firma le scenografie de L’inhumaine di Marcel L’Herbier oltre a realizzare il suo celebre Ballet mécanique che mostra oggetti, forme geometriche, silhouettes, figure che si scompongono, si aprono, si chiudono, si rovesciano in un gigantesco caleidoscopio. È lo stesso Léger a dichiarare che «il film è nato dalla mia pittura». Dalla sua parete in mostra emerge un mondo di figure e di paesaggi costruiti come bizzarri ingranaggi. Magnifico. Accanto a lui c’è la sintesi di Juan Gris, l’altro spagnolo del gruppo.
Da Parigi il Cubismo prende il volo. Atterra sulle tele dei pittori di ogni parte del mondo: ci sono il messicano Rivera e il ceco František Foltyn con il suo Ritratto di Dostoevskij a tocchi sfaccettati. Ci sono gli inglesi: Vanessa Bell, Wyndham Lewis, gli Omega Workshop, Roger Fry, sul quale è appena uscito una nuova edizione del libro di Virginia Woolf che della Bell è la sorella (Roger Fry, a cura di Nadia Fusini, Mondadori). Al gruppo di Bloomsbury è lasciato il compito di rappresentare il design. E appare evidente come le diverse culture assimilino il cubismo facendolo dialogare con la propria storia, anche se, spesso, per contrasto. Ecco gli americani: Mardsen Hartley, Stanton Mc-Donald Wright. E anche Gino Severini e Ardengo Soffici: l’avanguardia francese incontra quella italiana, cubismo e futurismo si spiano, si intrecciano. E poi ci sono i russi: El Lissitsky, Liubov Popova, Alexandra Exter con le sue brillanti scenografie teatrale. A questo proposito ecco i costumi di scena di Parade progettati da Picasso per il balletto dei Balletti Russi di Diaghilev su libretto di Cocteau, coreografia di Léonide Massine e musica di Eric Satie, andato in scena nel 1917. Apollinaire definisce lo spettacolo “il primo balletto cubista”. I ballerini indossavano pezzi di città (il manager americano i grattacieli e quello francese i boulevards) danzando, per la prima volta sul palcoscenico del Théatre du Chatelet i passi di una modernità fino allora sconosciuta.

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Il movimento diventato pura musica
Da Satie a Poulenc, i compositori ispirati dagli artisti

Claudio Strinati

Il cubismo musicale si può far cominciare dallo spettacolo Parade di Jean Cocteau e Erik Satie per il quale Picasso dipinse il celebre sipario. Satie era all’epoca verso la fine della sua carriera. Dandy aristocratico e elegante, nato nel 1866, aveva alle spalle una lunga attività di stralunato riordinatore del discorso musicale da lui ridotto a una essenzialità ripetitiva apparentemente indifferente alle suggestioni del sentimento ma in realtà delicata e ipersensibile. Era come se fosse ritornata in lui la dottrina rinascimentale della “sprezzatura” di Baldassar Castiglione nel Cinquecento, per cui bisogna che il creativo sia indifferente alle lusinghe dell’edonismo esprimendosi secondo accorta verità per cassare ogni atteggiamento servile e acquiescente al luogo comune. Con alle spalle Wagner e con accanto Debussy, Satie aveva introdotto un nuovo modo di pensare la musica ma aborriva l’idea di porsi come caposcuola. Cocteau quasi lo costrinse e sei musicisti gli si incamminarono dietro all’inizio del terzo decennio sull’influsso di un brillante testo teorico di Cocteau stesso, del 1918, Le Coq e l’Arlequin.
La definizione di Group des Six fu coniata nel 1926 dal critico Henri Collet per analogia con il Gruppo russo detto dei Cinque, formatosi nel 1860 e annoverante Cui, Borodin, Balakirev, Musorgskij e Rimskij-Korsakov. In realtà i francesi fecero gruppo per breve tempo anche se inizialmente con vera convinzione. Ma le loro idee erano ben più complesse del rapporto con il Cubismo. Se per Cubismo si definisce la tendenza a scomporre e ricomporre l’oggetto della propria rappresentazione, non c’è dubbio che l’esponente maggiore di quel gruppo fosse Darius Milhaud (nato nel 1892), l’unico cui la definizione di “cubista” spetterebbe di diritto. Milhaud era vicino a Satie ma fu soprattutto condizionato dalla cultura latino-americana essendo stato, tra il 1917 e il 1919, all’ambasciata francese di Rio de Janeiro, e i suoi capolavori Le Boef sur le toit (il bue sul tetto, del 1920) e il balletto La Création du Monde (1923) sono memorabile dimostrazione di una sorta di caotico e insieme lucido andirivieni di tango, samba, fado e jazz delle origini, che danno a chi ascolta la sensazione di un formidabile scompaginamento e riassemblaggio delle forme musicali in una acuta eccitazione ritmica e melodica. Fu un metodo compositivo che trovò riscontri altrettanto notevoli nei lavori di Arthur Honegger (coetaneo di Milhaud), più affascinato però da tematiche futuriste (è suo l’eccezionale poema sinfonico Pacific 231 del 1923 che descrive la partenza e l’avanzata di una, all’epoca, ultramoderna locomotiva) e di Francis Poulenc (il più giovane del gruppo, 1899) i cui lavori sono una sintesi, vagamente dadaista, del più puro classicismo mozartiano con il più impuro sovraccarico di jazz cabarettistico. Poulenc è uno dei grandi compositori del ventesimo secolo e il suo influsso è stato enorme. Meno incisivi furono, invece, gli altri membri del Gruppo, Louis Durey (1888) che partecipò ben poco al Gruppo stesso, George Auric (1889) brillantissimo “sportivo” della musica e l’unica donna, Germaine Tailleferre (1892), fine musicista più morigerata e vigilata da un gusto sopraffino. Certo è che l’attività di questi musicisti nel corso degli anni Venti non fu affatto demolitoria, come taluni avrebbero potuto credere, ma ispirata veramente all’idea della ricostruzione di un’armonia dinamica persasi per colpa della perentoria solennità a tutti i costi wagneriana. Per prendersi più sul serio bisognava dare l’idea di non fare troppo sul serio.

Cubismo al Vittoriano
Picasso e Braque smontano le figure

Elena Del Drago

"La Stampa",  15 aprile 2013

Cubisti Cubismo: sin dal titolo questa nuova mostra al Complesso del Vittoriano promette non tanto un percorso attorno ad opere più o meno conosciute di una star (preferibilmente impressionista) della storia dell’arte com’era avvenuto in passato, ma un’immersione in un’idea che incarna talmente lo spirito del tempo, da diventare un linguaggio condiviso rapidamente, oltre le barriere linguistiche e geografiche. Ed è una promessa mantenuta: il merito di questa esposizione, meno enciclopedica di altre viste altrove, meno ricca dei capolavori più iconici, sta proprio nella capacità di raccontare quanto il cubismo sia stato si un’invenzione elaborata inizialmente da Picasso e Braque nel corso della loro leggendaria amicizia, ma poi diffusa e modificata, di studio in studio, fino a diventare un esperanto dell’arte all’inizio del Novecento.
In tre anni la scomposizione delle forme elaborata a Parigi arriva in Italia, in Spagna, in Inghilterra, in Cecoslovacchia, in Russia e poi, dall’Europa negli Stati Uniti, diventando l’immagine stessa di un nuovo secolo attraversato da cambiamenti tanto veloci quanto difficili da comprendere. Scomporre in cubi diventa una necessità dopo Les demoiselles d’Avignon, l’unica evoluzione possibile dalla lezione di Cézanne, tanto che il poeta Apollinaire nel 1913 scrive: «la geometria sta alle arti plastiche come la grammatica sta alle arti dello scrivere». Così il percorso ruota attorno ad una parte centrale che riunisce i pezzi da Novanta, come Chitarra e violino di Picasso, proveniente dall’Ermitage, o Il violinista (1912) di Braque, che indicano la direzione seguite dalle diverse interpretazioni della stessa idea, ed ecco L’autista negro di Léger accanto alle magnifiche composizioni di Gino Severini o ai ritratti di Albert Gleizes.
Ma a rendere davvero interessante questa mostra plurale sono le sale dedicate alle altri arti, dalla letteratura al cinema, dal teatro all’architettura, in uno sforzo, appunto collettivo, per riuscire a rendere attraverso le immagini quella straordinaria accelerazione che il Novecento aveva portato con sè nel pensiero e nella società. Mentre suona la musica di Erik Satie si passa in rassegna la fusione straordinaria di parola e segno in un ritmo visivo che non vuole creare armonia, ma innovazione: tra tutte particolarmente riuscita la collaborazione tra il poeta Blaise Cendrars e Sonia Delaunay per La prose du Transsibérien et de la petite Jehanne de France, in mostra evocata da quattro tavole che mettono voglia di guardare oltre il racconto della storiografia ufficiale. Seguire le tracce di Sonia Delaunay che è stata, a lungo, soprattutto la moglie del più noto Robert per esempio, ci porta ad un’altra sezione, quella dedicata alla moda, ad un altro tassello di una visione complessiva, in cui il mondo delle arti visive si sforza avanguardisticamente di uscire dagli studi e dalle discussioni nei caffè per diventare vita. Dall’altra parte della Manica, le energie cubiste si applicano a piatti e tappeti grazie ai disegni di Duncan Grant, Vanessa Bell o Roger Fry, celebro storico dell’arte, che scrive: «Speriamo di decorare le nostre stanze in un modo che consenta alla gente di valutare fino a che punto le idee che sono state tanto discusse e schernite in pittura diventino apprezzabili quando si utilizzano per le arti applicate, nell’arredamento per la casa e le decorazioni murali».

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