domenica 24 marzo 2013

L'epica oltre l'egemonia di Omero


Gli eroi dei poemi hanno avuto molte avventure (non tutte andate perse)

Giorgio Montefoschi

"Corriere della Sera",  24 marzo 2013

Dopo l'Iliade e l'Odissea, e dopo la scomparsa di quella generazione di re ed eroi molto spesso imparentata con gli dèi, c'era ancora molto da narrare. Rimanevano fuori dal racconto omerico — epperò vivi nella memoria dei greci, cantati negli agoni rapsodici, raffigurati nella pittura murale e nei vasi — episodi mitici famosissimi riguardanti la fine di Troia e il ritorno in patria degli achei. Furono così composti, fra la fine dell'VIII e la fine del VI secolo a.C. diversi poemi — un vero e proprio ciclo — sull'argomento: i Canti di Cipro, l'Etiopide, la Piccola Iliade, La presa di Ilio, I ritorni. Erano notissimi, e i poeti tragici — Eschilo, Sofocle e Euripide — per le trame delle loro tragedie ne fecero uso. Ma col passare del tempo, a causa soprattutto della critica letteraria che li considerava opere di basso livello, scomparvero dalle biblioteche e andarono definitivamente perduti.
A colmare la lacuna, in pieno alessandrinismo, fra la fine del II e l'inizio del III secolo d.C., pensò, con Il seguito dell'Iliade (che oggi Bompiani propone nella collana di Giovanni Reale e Elisabetta Sgarbi) il poeta Quinto di Smirne: quattordici canti, per un totale di circa diecimila versi, nei quali, oltre ai modelli omerici inevitabili e ai poemi del ciclo, sono presenti i Tragici, Apollonio Rodio e Virgilio; ma anche Callimaco e Teocrito; e l'immensa letteratura ellenistica, nutrita dalla nostalgia e dallo smarrimento, dall'amore melanconico per la bellezza e dalla riflessione morale. È una lettura, per l'insieme di questi echi e di questi motivi, davvero stupefacente. Il lettore che si affida ai suoi versi ritrova certamente Omero. Ma, soprattutto, ha la sensazione di trovarsi come davanti a un bassorilievo: un lunghissimo bassorilievo che raccoglie e scansiona una moltitudine di corpi e di gesti, una infinità di fatti umani e divini — col cielo, la terra, il mare — fermati per sempre nel marmo.
Il poema comincia con Pentesilea, la regina delle Amazzoni, che viene in soccorso dei troiani. È una furia: i greci muoiono come capre belanti sotto le mascelle di una terribile pantera. Deve intervenire Achille che ancora sta piangendo Patroclo. Dopo averla insultata («Sei una folle» le dice), la colpisce con la lancia sotto il seno destro. Poi, quando è morta, le toglie l'elmo ed è stupefatto dalla sua bellezza, che è simile a quella di una dea immortale. Quindi c'è una pausa, per onorare i defunti. E, dall'Etiopia, sempre in soccorso dei troiani, arriva Memnone, figlio dell'Aurora, che subito uccide Antiloco, figlio di Nestore, che si dispera (perché «per i mortali non c'è dolore peggiore / di quando i figli periscono al cospetto del padre») e invoca vendetta. Ma Memnone si difende come un cinghiale dai cacciatori in un anfratto, e di nuovo deve intervenire Achille. Prima del duello, due Chere, le dèe della vita e della morte, una nera e una lucente, volteggiano attorno agli eroi. Memnone muore. La madre geme sconvolta, non vuole più illuminare la terra e la terra si oscura. Così è Zeus a doverla obbligare a tornare nel mondo.
Sorge l'alba, infatti; si svolgono i funerali di Antiloco, e riprende la battaglia. Le Chere volano attorno al capo di Achille, adesso. Lui non lo sa, sfiderebbe persino gli immortali. Ed è un immortale a ferirlo con una freccia: Apollo, che sempre difende i troiani. Achille precipita fra i cadaveri, vorrebbe continuare a combattere, ma la vita se ne va. Ed ecco che appare Paride che incita i compagni a impadronirsi del suo corpo. La contesa è feroce. A difendere Achille pensa soprattutto Aiace. I troiani, come vili avvoltoi spaventati dall'aquila, fuggono, e il corpo del più valoroso fra i greci è portato alle navi. Qui, il pianto è infinito: risuona come le onde del mare sospinte da un grande vento.
Mentre si prepara il rogo, Atena stilla dall'alto ambrosia che fa sembrare l'eroe un vivo: addirittura col sopracciglio aggrottato per la morte di Patroclo. E di nuovo tutti piangono: il vecchio tutore Fenice, la disperata Briseide e Teti, la madre, che bacia il figlio sulla bocca. Smetti di piangere — le dice Calliope — anche mio figlio Orfeo è morto, il Fato non si cura neppure dei figli degli dèi. Dopodiché le fiamme salgono, il corpo si riduce a bianche ossa, a nulla, e di fronte a quel nulla piangono anche i cavalli divini di Achille. Loro avevano già pianto la morte di Patroclo, battendo il suolo con gli zoccoli; ora piangono Achille. «Che avevate a che fare in quelle tristi valli / terrestri, fra mortali infelici, trastullo della sorte?» scrisse Costantino Kavafis. «Ma le bestie di nobile natura / piangevano di morte la perenne sventura».
Cominciano i giochi funebri. Poi Teti mette in palio le armi di Achille. Se le contendono Aiace e Odisseo: le avrà chi, secondo i prigionieri troiani, si è maggiormente distinto nella difesa del suo cadavere. I troiani votano Odisseo, Aiace impazzisce dall'ira, fa strage di pecore scambiandole per i greci, rinsavisce e, non reggendo al disonore, si uccide. Poi riprende la battaglia: da una parte mietono vittime Aiace Oileo, Diomede e i due Atride; dall'altra, Euripilo e Enea. I troiani, intanto, sono in grande difficoltà ai bastioni di difesa delle navi. Bisogna far venire dall'isola di Sciro Neottolemo, il figlio di Achille. Partono in missione Odisseo e Diomede. Arrivano a Sciro, promettono a Neottolemo le armi del padre e in sposa la figlia di Menelao. Neottolemo accetta. Sua madre, Deidamia, è disperata; vorrebbe trattenerlo. Invece, la nave parte. Lei guarda il mare finché le vele scompaiono e la nave arriva a Troia.
Gli occhi di Neottolemo, ansioso di emulare le gesta paterne, scintillano come quelli di un leone sfrontato. I troiani, vedendolo rivestito di quelle armi, si rinchiudono terrorizzati nelle mura della città: «Come quando i pastori nei recinti attendono / la scura bufera, allorché arriva il tempo dell'inverno...». È una carneficina. Alla quale gli dèi non assistono inermi: Ares, Afrodite e Apollo contro Era e Giunone. Zeus, di volta in volta, manda nubi e nebbie e fulmini che oscurano la vista e salvano chi sta per soccombere. Il fiume Xanto è rosso di sangue. Sulla spiaggia, i cadaveri giacciono come tavole e legni spezzati di una nave smontata. Le donne e i vecchi troiani guardano dall'alto delle mura e tremano. Sopraggiunge, in soccorso dei greci, Filottete, richiamato dall'isola nella quale era stato abbandonato. Gli uomini cadono al suolo come le spighe recise in agosto. Il fragore della pugna è simile a quello dei venti di primavera fra gli alberi, al crepitio del fuoco nella macchia, al mare in tempesta.
E viene il momento di Paride. Filottete lo colpisce all'inguine. Paride è moribondo. Tuttavia non va da Elena, ma da Enone, la moglie che ha abbandonato e dimora sul monte Ida, perché nel suo destino è scritto che potrebbe sfuggire la morte «qualora ella volesse». Enone non vuole. Lui la implora: «Non lasciarmi morire». Lei, sprezzante, gli dice: «Rivolgiti a Elena». E aggiunge: «Oh, se io avessi nel cuore l'immensa forza di una belva, / per sbranare le tue carni e poi tracannare il tuo sangue, / per tutto il male che mi hai fatto...». Paride muore. Viene innalzato il rogo: sul monte. Ma Enone non regge al dolore: «La luce del giorno non ha più attrattiva». Dopodiché, come una pazza, si getta sul rogo e muore col marito che l'ha tradita. Le Ninfe sono attonite. Sono attoniti anche i pastori.
Ormai, la fine di Troia è vicina. Siamo all'inganno del Cavallo, che tutti conoscono. I troiani cadono nell'inganno, nonostante gli avvertimenti di Laocoonte che verrà strozzato insieme ai figli dai serpenti marini, e di Cassandra («Siamo arrivati nella tenebra!» grida); trasportano il cavallo in città e si ubriacano di vino. Poi escono dal cavallo, e si scatena l'orrore. La città brucia in un gigantesco rogo le cui fiamme si vedono fino all'isola di Samotracia. Dal mare, i naviganti capiscono che il destino di Troia è compiuto.

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