G. Scaraffia, Tour parigino con "Papa", "Il Sole 24 Ore", 11 settembre 2011
"Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna, perché Parigi è una festa mobile".
Ernest Hemingway, un ventenne con pochi soldi in tasca e, notava la Stein, occhi più interessati che interessanti, attraversava i giardini del Luxembourg lavati dalla pioggia e saliva le scale di un albergo al 39 rue Descartes, dove era morto Verlaine. Lì aveva affittato una stanza per lavorare lontano dai rumori e dalle distrazioni della famiglia, bevendo kirsch e mangiando mandarini e caldarroste.
La sua meravigliosa prosa scabra e tatuata dalle ripetizioni, talmente profonda da potere sembrare superficiale, era nata al 27, rue de Fleurus, in un appartamento costellato di modernissimi quadri cubisti. Lì Gertrude Stein, anche lei americana e da molti anni a Parigi, gli aveva insegnato uno stile che, ostico nelle sue prose d'avanguardia, sarebbe stato semplificato e perfezionato da Ernest. E ottimamente reso dalla traduzione di Luigi Lunari. Non potendo comprarsi dei libri li prendeva in prestito alla biblioteca circolante della Shakespeare and Company, al 12, rue de l'Odéon, un posto caldo e accogliente in «una via fredda e spazzata dal vento». La prima volta che era entrato era intimidito perché non aveva neanche i soldi per l'iscrizione, ma Sylvia Beach era stata molto gentile e rassicurante. Però neanche a Parigi le librerie sono eterne e chi vuole ritrovare quel clima, le foto degli scrittori appese alle pareti e i libri vecchi e nuovi mescolati in un ordine solo apparente, deve spostarsi al 37, rue de la Bûcherie, sulle rive della Senna. Lì Hemingway andava per rovistare nelle cassette dei bouquinistes alla ricerca di qualche romanzo americano dimenticato dai turisti. O si rilassava osservando i placidi pescatori cittadini tra l'Ile-St-Louis e lo Square du Vert-Galant.
«La fame è un'ottima disciplina e puoi imparare da lei». Ma a volte Ernest e la moglie Hadley si concedevano una follia, una cena al costoso ristorante Michaud, oggi Le Comptoir des Saints-Pères al 29 rue des Saints-Pères. Lì potevano ammirare James Joyce compunto con tutta la famiglia. Da Lipp, 151 boulevard Saint-Germain, sorseggiava un distingué, un litro di birra, con un contorno di patate lesse. «La birra era molto fredda e meravigliosa da bere». Dopo avere finito le patate, ordinava un cervelas, una salsiccia coperta da una salsa di senape speciale.
Alla Closerie des lilas, 171 boulevard du Montparnasse, si sedeva in un angolo e, in quell'atmosfera satura di ricordi poetici, scriveva a matita su un quaderno con la copertina blu, illuminato dalla luce del pomeriggio. Al Dôme, 108 boulevard du Montparnasse, gli piaceva guardare il pubblico, le modelle e i pittori. Lì ordinava una birra, una demi-blond, e parlava con un cubista, il grande e sfortunato Pascin, destinato al suicidio.
Hemingway aveva incontrato Francis Scott Fitzgerald al Dingo Bar, oggi Auberge de Venise, 10 rue Delambre. Scott era un dandy, avvolto nell'abito di Brooks come un cavaliere nel suo mantello. Un lieve gonfiore minava la perfezione del viso. Una scriminatura divideva l'onda chiarissima dei capelli. Vivacità, bontà e umorismo brillavano nelle pupille chiare. Le labbra sinuose sembravano sempre sul punto di sorridere. Tuttavia, notò Hemingway, la raffinatezza di quei tratti lasciava trapelare una sensazione di disagio.
«I ricchi sono diversi da noi», aveva detto Scott a Ernest, che aveva ribattuto: «Sì, hanno più soldi». E ognuno era rimasto solo con i suoi miti: Fitzgerald con quello della grazia inafferrabile della ricchezza e Hemingway con quello di una virilità prossima all'eroismo. Poco dopo Scott, che aveva vuotato una bottiglia di champagne dopo l'altra, era impallidito, assumendo «l'aspetto di un teschio» ed era stato rimandato a casa in taxi. Era l'inizio di un'amicizia difficile, destinata a sfumare, da parte di Hemingway in un imbarazzato rancore. Per uno strano destino i migliori tra i libri dei due amici nemici Hemingway e Fitzgerald sono proprio quelli, Festa mobile e Tenera è la notte, scritti quando entrambi temevano di avere perso il loro talento, ambientati in una Francia che non riuscivano a dimenticare. Quando «Parigi era una città molto vecchia e noi eravamo giovani e lì non c'era niente di facile».
Ernest Hemingway, Festa mobile, traduzione di Luigi Lunari, Mondadori, Milano, 2011
Hemingway a Milano, nel 1918 |
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