martedì 10 luglio 2012

Fior da fiore con Dante, 

Boccaccio, Tasso

Un dipinto di Sandro Botticelli ispirato a una novella del Decameron
Un dipinto di Sandro Botticelli ispirato a una novella del Decameron

Tra erbe, petali e arboscelli
tre «passi» con i classici
alle origini della nostra storia
letteraria, per ristorare nel verde
i pensieri e le membra

GUIDO DAVICO BONINO
Dante, Boccaccio, Tasso sono gli scrittori che, a dirla alla buona, ci hanno fatto dono dei più fascinosi giardini nei primi tre secoli della nostra storia letteraria.

Dante - lo ha ricordato Elena Loewenthal nella prima puntata di questa avventurosa rassegna - recupera e ricrea dal Genesi nella sua seconda cantica, quella del Purgatorio, il «dolce pome» (così lo definisce il «duca» Virgilio nel canto XXVII), là dove erbetta, fiori ed arboscelli «la terra sol da sé produce». Due sono i fiumi che irrigano il Paradiso Terrestre rivisitato dall’Alighieri nel XXVIII canto: Lete, il fiume dell’Oblio dei peccati, ed Eunoe, che ridà la memoria del bene commesso. Sulla sponda d’uno dei due corsi è Matelda, che sen va «e cantando e scegliendo fior da fiore» e su un tappeto di fiori avanza verso il poeta: questo è luogo dalla «gran variazion di freschi mai», colmo cioè di gran varietà di fiori, giacché è pieno «d’ogni semenza»: vi spira infatti, leggero e sempre uguale, un vento soffiato dal Primo Mobile, sotto il cui impulso gli alberi spandono di continuo i loro semi sulla terra. Purtroppo nell’«eccelso giardino» Adamo - come costui rivelerà a Dante nel XXVI canto del Paradiso - soggiornò solo sette ore. Era quella dimora un’«arra», un pegno, che il Sommo Bene aveva concesso all’uomo: il quale «per sua diffalta un pianto e un affanno - cambiò onesto riso e dolce gioco».

Se la stesura del Purgatorio risale, come sembra, almeno nella originaria versione, al 1308-1312, il capolavoro assoluto della novellistica occidentale, il boccacciano Decameron, venne portato a compimento tra il 1349 e il 1351, a ridosso della terribile esperienza della peste fiorentina del ’48. Dalla loro «terra» (città) fuggono non a caso «in contado» (in campagna) le sette donne e i tre uomini, reinventati dal Boccaccio, per approdare - dopo due chilometri di trasferta (un nonnulla per gli odierni appassionati di jogging) - ad «una piccola montagnetta» (collina): là s’erge «un palagio», circondato da «giardini maravigliosi».

Uno è quello scelto dalla «lieta brigata» per avviare il racconto dei cento fatti singolari che costituiscono le altrettante tessere dello splendido mosaico narrativo. Ma nella terza giornata, sempre a prezzo d’un’altra piccola trasferta (non «oltre a duemila passi»), i dieci giovani ne scoprono un altro «di maravigliosa bellezza», dalle «vie» (viali) tutte allora fiorite e «tutte di rosa bianchi e vermigli e di gelsomini... quasi chiuse...».

E poi ci sono i giardini in cui si svolgono alcune novelle dell’opera. Come la quinta della giornata decima, ambientata ad Udine, «in Friuli, paese quantunque freddo». Qui madonna Dianora, per scoraggiare un gran barone, promette a bella posta che gli si concederà se a gennaio le farà nascere sotto gli occhi «un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti alberi, non altrimenti fatto che se di maggio fosse...». E lo spasimante ricchissimo trova un negromante, che a caro prezzo glielo fa spuntare «al tempo posto (alla data precisata)..., essendo i freddi grandissimi ed ogni cosa piena di neve e di ghiaccio...». Non diciamo come le cose vanno a finire (l’esito è comunque a sorpresa) per stimolare qualcuno alla lettura in diretta.

Dire Torquato Tasso vuol dire Gerusalemme liberata, il grande poema epico in venti canti in ottava rima, apparso a Parma e Casalmaggiore nel 1581. La bellissima Armida, la giovane maga siriana, «di sue forme altera - e de’ doni del sesso e de l’etate», s’è trascinata dietro da Emmaus ad un suo giardino su un’isola delle Fortunate (siamo oltre le Colonne d’Ercole, nell’Atlantico) troppi guerrieri cristiani.

Rinaldo d’Este, capostipite del casato ferrarese, si precipita a liberarli, ma ci casca anche lui, anzi ci cascano tutt’e due, se Tasso, a dispetto delle sue autocensure, tiene a precisare che il giovane prigioniero «è in grembo a la donna, essa ha l’erbetta». In quel giardino fatato approdano il danese Carlo e il saggio Ubaldo: grazie ad una pianta, donata loro dal veglio d’Ascalona, scoprono che su una montagna, al centro di un «tondo» e «ricco edificio», quasi «nel più chiuso grembo di lui», sorge il magico giardino, ben protetto da un labirinto «di muri inestricabili», il quale «mille torce in sé confusi giri».

Oltre alle difficoltà topologiche, ci saranno a distrarre i prodi varie «natatrici ignude e belle»: «Una intanto drizzossi, e le mammelle - e tutto ciò che più la vista alletti - mostrò, dal seno in suso, aperto al cielo...». Le parole della bella sono non meno attrattive: «Questo è il porto del mondo: e qui è il ristoro - de le sue noie...». Benché decisamente ammaliati, i nostri riusciranno a far specchiare Rinaldo in uno scudo adamantino: colto da vergogna, abbandonerà la malvagia seduttrice, che - promettendo ulteriori vendette - distruggerà comunque il suo palazzo.

(fonte: Tuttolibri,  16 luglio 2011)


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