Freud Faces, by Josh Hoffs, MD (dal sito www.joanlachkarphd.com) |
"I poeti sono soliti sapere una quantità di cose tra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta.... Poeti e filosofi hanno scoperto l'inconscio prima di me. Quel che io ho scoperto è il metodo scientifico con cui poterlo analizzare".
S. Freud, Delirio e sogni della Gradiva di W. Jensen,1907
C. Taglietti, Ieri Svevo e Berto. Ma oggi nei romanzi vincono gli psicopatici, trascinati dal giallo, “Corriere della Sera”, 8 luglio 2012
La psicoanalisi è uscita dalla letteratura, la letteratura è entrata nella psicoanalisi. Il rapporto tra inconscio e narrazione è sempre stato fecondo e a doppio senso, anche se oggi la pratica freudiana basata sulla parola ha perso il peso che ha avuto per gran parte del Novecento. Per molti anni l’individuo, sbriciolato nella sua monoliticità dal «maestro del sospetto» Freud, ha trovato proprio nella narrativa una rappresentazione paradigmatica, a partire dalla Coscienza di Zeno, il capolavoro di Italo Svevo basato sulle memorie (raccolte dal suo psicoanalista) del protagonista, Zeno Cosini, che intrecciano ricordi e desideri mettendo in luce le stratificazioni e le mascherature della psiche. Giuseppe Berto comincia a scrivere Il male oscuro (1964) non credendo affatto alla psicoanalisi, ma fidandosi completamente del suo analista, un «uomo straordinariamente buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso», che lo conduce gradatamente a guardare dentro se stesso senza paura o vergogna di ciò che vi avrebbe potuto trovare: «Era come se avessi scoperto il bandolo di un filo che mi usciva dall’ombelico – scrive — io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po’ male si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male».
Con Saba, Gadda (è lui a usare l’espressione «male oscuro» ne La cognizione del dolore) e poi Moravia, Volponi, Bertolucci, Sanguineti la psicoanalisi entra in modo massiccio, a volte in forma esplicita, a volte sotterranea, nella nostra letteratura, mentre la critica ha fatto ricorso agli studi di Freud (ma anche di Jung e Lacan) per interpretare le opere degli scrittori, basti pensare allo «sperimentatore» Giacomo Debenedetti, al suo allievo Mario Lavagetto, a Francesco Orlando o a Elio Gioanola che ha pubblicato recentemente da Jaka Book una biografia di Eugenio Montale dal titolo significativo: Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive, dove la necessità dell’opera è fatta derivare direttamente dal «male di vivere», proprio come nel caso di Svevo. All’impostazione psicoanalitica aderisce in modo totale Julia Kristeva, critica e semiologa capace di una efficace sintesi di metodi con cui scannerizza temi e autori, dal misticismo al genio femminile di Colette, Melanie Klein, Hannah Arendt, dall’amore («essere psicoanalista significa sapere che tutte le storie finiscono per parlare d’amore» scrive nel saggio Storie d’amore, scritto nell’83 e ora pubblicato da Donzelli) all’arte.
Oggi, complice il trionfo mondiale del genere giallo-nero, i nevrotici hanno lasciato spesso il posto, nei romanzi, a veri e propri disturbati mentali quando non psicopatici. La categoria costituisce un bacino fecondo e ricchissimo di spunti narrativi per gli autori di un genere che nel corso degli ultimi tempi ha messo in scena una galleria di serial killer inseguiti da investigatori e poliziotti depressi e feriti dalla vita che nella maggior parte dei casi l’aiuto psicologico lo rifiutano a priori. L’investigatore razionale e positivista, risolto e fiducioso nel suo metodo deduttivo, si è un po’ fatto da parte a favore di figure meno rassicuranti che inseguendo i fantasmi altrui trovano i propri. Come l’Harry Bosch di Michael Connelly, poliziotto traumatizzato dall’omicidio della madre e incapace di relazionarsi con il prossimo, o l’Harry Hole di Jo Nesbo, detective alcolista e solitario. Ma gli esempi potrebbero essere molti. Per questi investigatori, e per quelli come loro, la narrativa gialla e hard boiled offre una lunga serie di disagi psicologici, un’esplosione drammatica di passioni e ossessioni quasi sempre movente e spia della drammaticità della condizione umana. Insomma, la psiche e l’inconscio sono oggi per lo più roba da profiler del Fbi o di criminologi nostrani. Fanno eccezione rari casi, come quello di Patrick McGrath, lo scrittore inglese cresciuto in un ospedale psichiatrico criminale dove il padre era sovrintendente medico, autore di un romanzo, L’estranea (Bompiani) che, come i suoi precedenti, Follia, Martha Peake, Spider è in grado di penetrare nel lato oscuro degli individui aprendo, nello stesso tempo, squarci su rapporti familiari e sociali, stando ben lontano dai meccanismi del giallo.
È anche vero che la psicoanalisi ha trovato spesso nella letteratura un serbatoio di metafore e intuizioni evocative in grado di semplificare dal punto di vista linguistico meccanismi e rapporti complessi — dalle tragedie greche (il complesso di Edipo), al tema della doppia personalità (Dr. Jekyll e Mr. Hyde) — e non è un caso che un racconto giallo di Edgard Allan Poe di poco antecedente alla nascita della psicoanalisi, La lettera rubata, con protagonista l’investigatore-artista Auguste Dupin, sia stata lo spunto di riflessione per lo stesso Sigmund Freud, più tardi per Jacques Lacan e infine per filosofo francese Jacques Derrida. Psicoanalisi e romanzo giallo nascono praticamente contemporaneamente e i meccanismi della detective story possono essere accostati a quelli di una indagine nella mente del paziente. Partendo da questo presupposto un gruppo di psichiatri e di analisti pavesi, membri della Società psicoanalitica italiana (Antonino Ferro, Giuseppe Civitarese, Maurizio Collovà, Giovanni Foresti, Fulvio Mazzacane, Elena Molinari, Pierluigi Politi) ha scritto un volume collettivo edito da Raffaello Cortina intitolato proprio Psicoanalisi in giallo dove, anche attraverso figure note agli amanti del poliziesco, dall’Adamsberg di Fred Vargas, capace di accostare storie apparentemente senza legame basandosi solo su quello che si può chiamare fiuto, al Montalbano di Camilleri con la sua «verità emotiva», dall’87° distretto di Ed McBain all’ispettore Tibbs di John Ball, si analizzano le evoluzioni di una pratica che risponde alla stessa domanda del giallo: di chi è la colpa? Per giungere alla conclusione che non sempre la colpa è, appunto, del colpevole.
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