Anche la critica cambia idea, di Cesare Segre
«Corriere della sera», 3 luglio 2012
Da quando il grande critico americano Harold Bloom ha pubblicato il suo Canone occidentale, nel 1994, ci siamo accorti dell'utilità di un concetto, prima non ignorato ma poco utilizzato, per mettere ordine nelle nostre idee a proposito della letteratura. Si sono poi pubblicati sul canone, in America e in Europa, interi numeri di riviste, si sono organizzati convegni e dibattiti, conferenze a non finire. Il concetto di canone, evidentemente, permette di discorrere di letteratura su basi diverse da quelle consuete. L'unica zona della letteratura che fuoriesce è la contemporaneità, proprio perché non vi esiste ancora un canone, o è soltanto in corso di elaborazione. Ma ormai tutto il mondo corre sempre più veloce, e si può già parlare di canoni, che so, per periodi lontani soltanto di qualche anno. Nella contemporaneità, comunque, si propongono, spesso senza rendersene conto, i primi abbozzi dei canoni. Quando, per esempio, nei periodici o nei quotidiani si pubblicano, come accade spesso, classifiche dei migliori o dei principali narratori o poeti dell'ultimo decennio o ventennio, magari presentandoli con un numero memorizzabile: i dieci migliori, i dodici migliori, i venti, i cinquanta migliori, non si fa che proporre un canone. Di solito nascono polemiche violente: hai dimenticato X o Y, oppure hai inserito nell'elenco Z, che non lo merita. Dimenticanze sono sempre possibili, ma in genere si può far credito, a chi avanza la proposta, di averla ben meditata. E se il proponitore motiva la sua scelta, e se il contestatore fa lo stesso per la propria, possiamo già renderci conto di alcune delle spinte che danno l'avvio ad un canone.
In un certo senso la storia della letteratura è la storia dei canoni che organizzano e mettono in prospettiva le nostre conoscenze sui testi letterari. Naturalmente i canoni sono ispirati e governati dal gusto dominante, e perciò la successione dei canoni corrisponde agli sviluppi e ai mutamenti del gusto. Ma il discorso del canone è più facilmente concretizzabile. Facciamo qualche esempio pratico. Voglio preparare una storia della letteratura italiana. Guarderò subito le migliori storie già esistenti, e mi renderò conto del diverso rilievo che esse conferiscono ai singoli autori; in quel momento deciderò in che misura accettare le qualifiche d'importanza correnti, e in quali punti derogarne. Ci sarà dunque un'accettazione parziale di un canone, e una sua trasformazione; oppure, come a volte accade, il rovesciamento del canone. Il confronto fra le storie esistenti rivelerà che il canone rispecchia valutazioni comuni, che poi il nuovo storico rettificherà, se le sue proposte verranno accettate; in caso contrario, il canone continuerà a essere accettato.
Lo stesso accade con le antologie. Si noteranno differenze abissali tra quelle appartenenti a epoche diverse, mentre quelle contemporanee mostreranno maggiori rassomiglianze. Qui i problemi sono di due tipi. C'è il problema della valutazione comparata degli autori ammessi, e c'è il problema della scelta delle loro composizioni, cioè della comparazione tra i loro testi medesimi. Si sa benissimo quanto la critica ha cambiato nel giudizio comparativo tra le raccolte poetiche di Carducci, oppure di Pascoli e così di D'Annunzio. E infatti un Carducci antologizzato, poniamo, nel 1930, risulta diversissimo da un Carducci antologizzato nel 2000. Si tratta, anche qui, di canone. E per Pascoli, è solo un esempio, La cavallina storna, che ha commosso i miei contemporanei ed è stata da noi memorizzata, oggi appare artificiosamente lacrimosa, e si tende a eliminarla a vantaggio di poesie, magari dai Conviviali, prima trascurate in base alla sensibilità vigente.
(...) Chi ha un'età avanzata come me, ricorda già come siano mutati i canoni nel corso della sua vita. Ricorda per esempio che ancora a metà del Novecento la storia della nostra poesia si concludeva in pratica nei manuali con Pascoli e D'Annunzio; ricorda che la poesia in dialetto era sacrificata come forma inferiore e popolare o persino ignorata; ricorda che già in un ambito più aggiornato, quello della critica militante, la narrativa moderna aveva, a dire dei critici, due e solo due capifila: Vittorini e Pavese, sulla cui superiorità reciproca era lecito discutere. Il nome di Moravia campeggiava su tutti, con la convalida delle traduzioni straniere. È poi divertente ricordare che questi canoni, applicati a qualunque periodo, erano animati da raggruppamenti interni, tra cui erano preferiti quelli a tre componenti-numero sacro: perciò Dante-Petrarca-Boccaccio; oppure Boiardo-Ariosto-Tasso, o Carducci-Pascoli-D'Annunzio, o Ungaretti-Montale-Quasimodo. Questi raggruppamenti avevano se non altro un'utilità mnemonica, e in parte anche descrittiva: perché il metodo contrastivo aiuta a mettere in luce quello che è peculiare di ogni poeta di quelle terne. Sappiamo che in seguito quelle terne si sono sgretolate, quando qualche loro componente è stato retrocesso o abbassato di livello. Carducci, che giganteggiava sino alla metà del Novecento, fu poi ridimensionato, anche troppo, e ora incomincia, ma abbastanza timidamente, a risalire.
A guardare le cose a distanza, ci si rende conto di rivolgimenti memorabili del gusto, rivolgimenti che hanno mandato all'aria canoni che parevano assodati. Uno dei più significativi è il crollo delle azioni del Metastasio, considerato sino all'Ottocento fra i massimi rappresentanti della nostra poesia, e tra i modelli più validi per i poeti in attività. Riuscirà certo sorprendente il giudizio critico che segue: «la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del cuore o quella della immaginativa; si può dire che dal Cinquecento in qua non si sia più veduta in Italia; e che un uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso». Il giudizio non è di qualche oscuro purista, è nientemeno che del Leopardi (Zib. 701), che in effetti echeggia spessissimo versi del Metastasio. L'abbandono del linguaggio poetico tradizionale maturato nel Novecento è probabilmente il motivo principale del tracollo di Metastasio; ma si deve aggiungere che l'armonia tutta epidermica e la corrività delle sue sentenze ci rendono quel poeta completamente alieno, anche se sappiamo che ha avuto un successo internazionale strepitoso, e che i principali compositori dell'epoca hanno dato musica ai suoi versi.
(...) È poi accettato dalla generalità dei critici che tutta la produzione, in realtà imponentissima, che definiamo «di consumo», debba essere esclusa dai nostri discorsi. S'è anche accolto il termine Trivialliteratur per raggruppare, e in fondo ghettizzare, quell'insieme di scritti. Tuttavia la distinzione in certi casi si fa delicata: non possiamo certo escludere dai nostri panorami l'opera di Hammett, di Chandler, di Simenon o di Dürrenmatt, di Sciascia in Italia, perché afferisce in qualche misura alla categoria del «poliziesco», assegnata alla letteratura di consumo. Dovremo allora registrare l'esistenza di polizieschi di consumo e polizieschi di qualità? È quello che si fa tacitamente; ma anche lo sviluppo degli studi sulla Trivialliteratur dimostra quanto sia labile il confine tra letteratura di consumo e no, tanto più che quella di qualità ha visto il successo di opere eccellenti con diffusione popolare degna della Trivialliteratur, come Se una notte d'inverno di Calvino o La Storia della Morante.
(...) L'entrata nel canone, e l'eventuale preminenza in questo canone, ha motivi, se non cogenti, almeno solidi, nell'apporto che uno scrittore, o qualche sua opera, ha dato al successivo sviluppo della successiva letteratura. Per la triade trecentesca (accetto anch'io, per semplificare, il sistema ternario) non c'è dubbio che essa abbia segnato la nostra letteratura per secoli. E, tanto o poco, lo stesso si può dire per quelli che definiamo i nostri «grandi» autori. Ma si badi. Non è solo un problema di qualità intrinseche. È che i grandi scrittori di cui parlo, e in generale tutti i grandi scrittori, portano innovazioni nella sensibilità dei lettori, con mutamenti tematici e formali.
(...) Osservando una distanza più o meno grande, una comunità culturale tiene conto di questa funzione innovativa delle grandi opere. Invece di appellarmi al successo di vendita, o al numero di edizioni o di traduzioni, indicatori che ognuno sa quanto siano inquinati dall'industria culturale, posso invece segnalare due elementi che misurano bene l'apporto dato da un testo o da uno scrittore alla cultura. Il primo elemento è l'incoronazione di un'opera come «libro di testo». Cioè libri considerati indispensabili per la cultura di tutti, e perciò studiati, e in parte memorizzati, a qualche livello del curriculum scolastico. Nelle nostre scuole erano in pratica due per la nostra letteratura: la Commedia e i Promessi sposi, mentre per le letterature classiche erano «di testo» l'Iliade, l'Odissea e l'Eneide; altri, e non per intero, si aggiungevano facoltativamente. È però divertente che l'opera forse più memorizzata tra la fine dell'Ottocento e il Novecento sia lo scherzoso e parodico La partenza del crociato, oIl Prode Anselmo, di G. Visconti Venosta. L'eliminazione, recente, della categoria di «libro di testo» costituisce uno dei tanti fattori di disgregazione del nostro Paese. Vi figurate una Gran Bretagna dove nelle scuole non si studi più Shakespeare?
(...) Oggi il mondo è in preda a una globalizzazione che interessa e trascina civiltà sinora considerate lontane, altre da noi. Se anche rimanesse fermo tutto il resto, è inevitabile che si delineino altri canoni non solo soprannazionali, ma sopraculturali. Questo incomincia già ad accadere per il «racconto della storia», ma dovrà naturalmente estendersi anche alla letteratura. In caso contrario, ogni gruppo finirebbe per raccogliersi sotto la bandiera del proprio canone. Vari ghetti incomunicanti.
Ma per molti altri motivi è difficile dire se in futuro si parlerà ancora di canone letterario, dato che la letteratura stessa, almeno com'era concepita sino ad ora, può contare su una sopravvivenza molto precaria nel sistema delle attività artistiche. In più, un canone di autori e di opere implica la permanenza dei concetti di autore e di opera, la cui continuità e la cui validità al di sopra del tempo ispirano molti dubbi. Non alludo tanto alle critiche a questi concetti avanzate prima da Barthes, poi dai decostruzionisti; alludo al fatto che molte delle attività «nuove», cinema e televisione in prima fila, non fanno più riferimento a un autore individuabile, ma a una specie di cast: regista, soggettista, sceneggiatore, produttore, fotografo, e così via. Si diffonde il concetto di paternità frazionata.
(...) In questa situazione, che ho disegnato in forma caotica per alludere alla sua natura indubbiamente caotica, occorrerebbero menti rigorose e chiaroveggenti per costruire, o almeno progettare, un qualche ordine almeno momentaneo. Gli apporti delle varie tecniche e dei relativi punti di vista dovrebbero essere ordinati e specializzati a questo fine. Dal caos potrebbe, dovrebbe uscire l'armonia di un'orchestra. Anche con la coscienza che la mutabilità continuerà a imperare, e a mettersi in dialettica con le armonie eventualmente costruite.
Lo stesso accade con le antologie. Si noteranno differenze abissali tra quelle appartenenti a epoche diverse, mentre quelle contemporanee mostreranno maggiori rassomiglianze. Qui i problemi sono di due tipi. C'è il problema della valutazione comparata degli autori ammessi, e c'è il problema della scelta delle loro composizioni, cioè della comparazione tra i loro testi medesimi. Si sa benissimo quanto la critica ha cambiato nel giudizio comparativo tra le raccolte poetiche di Carducci, oppure di Pascoli e così di D'Annunzio. E infatti un Carducci antologizzato, poniamo, nel 1930, risulta diversissimo da un Carducci antologizzato nel 2000. Si tratta, anche qui, di canone. E per Pascoli, è solo un esempio, La cavallina storna, che ha commosso i miei contemporanei ed è stata da noi memorizzata, oggi appare artificiosamente lacrimosa, e si tende a eliminarla a vantaggio di poesie, magari dai Conviviali, prima trascurate in base alla sensibilità vigente.
(...) Chi ha un'età avanzata come me, ricorda già come siano mutati i canoni nel corso della sua vita. Ricorda per esempio che ancora a metà del Novecento la storia della nostra poesia si concludeva in pratica nei manuali con Pascoli e D'Annunzio; ricorda che la poesia in dialetto era sacrificata come forma inferiore e popolare o persino ignorata; ricorda che già in un ambito più aggiornato, quello della critica militante, la narrativa moderna aveva, a dire dei critici, due e solo due capifila: Vittorini e Pavese, sulla cui superiorità reciproca era lecito discutere. Il nome di Moravia campeggiava su tutti, con la convalida delle traduzioni straniere. È poi divertente ricordare che questi canoni, applicati a qualunque periodo, erano animati da raggruppamenti interni, tra cui erano preferiti quelli a tre componenti-numero sacro: perciò Dante-Petrarca-Boccaccio; oppure Boiardo-Ariosto-Tasso, o Carducci-Pascoli-D'Annunzio, o Ungaretti-Montale-Quasimodo. Questi raggruppamenti avevano se non altro un'utilità mnemonica, e in parte anche descrittiva: perché il metodo contrastivo aiuta a mettere in luce quello che è peculiare di ogni poeta di quelle terne. Sappiamo che in seguito quelle terne si sono sgretolate, quando qualche loro componente è stato retrocesso o abbassato di livello. Carducci, che giganteggiava sino alla metà del Novecento, fu poi ridimensionato, anche troppo, e ora incomincia, ma abbastanza timidamente, a risalire.
A guardare le cose a distanza, ci si rende conto di rivolgimenti memorabili del gusto, rivolgimenti che hanno mandato all'aria canoni che parevano assodati. Uno dei più significativi è il crollo delle azioni del Metastasio, considerato sino all'Ottocento fra i massimi rappresentanti della nostra poesia, e tra i modelli più validi per i poeti in attività. Riuscirà certo sorprendente il giudizio critico che segue: «la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del cuore o quella della immaginativa; si può dire che dal Cinquecento in qua non si sia più veduta in Italia; e che un uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso». Il giudizio non è di qualche oscuro purista, è nientemeno che del Leopardi (Zib. 701), che in effetti echeggia spessissimo versi del Metastasio. L'abbandono del linguaggio poetico tradizionale maturato nel Novecento è probabilmente il motivo principale del tracollo di Metastasio; ma si deve aggiungere che l'armonia tutta epidermica e la corrività delle sue sentenze ci rendono quel poeta completamente alieno, anche se sappiamo che ha avuto un successo internazionale strepitoso, e che i principali compositori dell'epoca hanno dato musica ai suoi versi.
(...) È poi accettato dalla generalità dei critici che tutta la produzione, in realtà imponentissima, che definiamo «di consumo», debba essere esclusa dai nostri discorsi. S'è anche accolto il termine Trivialliteratur per raggruppare, e in fondo ghettizzare, quell'insieme di scritti. Tuttavia la distinzione in certi casi si fa delicata: non possiamo certo escludere dai nostri panorami l'opera di Hammett, di Chandler, di Simenon o di Dürrenmatt, di Sciascia in Italia, perché afferisce in qualche misura alla categoria del «poliziesco», assegnata alla letteratura di consumo. Dovremo allora registrare l'esistenza di polizieschi di consumo e polizieschi di qualità? È quello che si fa tacitamente; ma anche lo sviluppo degli studi sulla Trivialliteratur dimostra quanto sia labile il confine tra letteratura di consumo e no, tanto più che quella di qualità ha visto il successo di opere eccellenti con diffusione popolare degna della Trivialliteratur, come Se una notte d'inverno di Calvino o La Storia della Morante.
(...) L'entrata nel canone, e l'eventuale preminenza in questo canone, ha motivi, se non cogenti, almeno solidi, nell'apporto che uno scrittore, o qualche sua opera, ha dato al successivo sviluppo della successiva letteratura. Per la triade trecentesca (accetto anch'io, per semplificare, il sistema ternario) non c'è dubbio che essa abbia segnato la nostra letteratura per secoli. E, tanto o poco, lo stesso si può dire per quelli che definiamo i nostri «grandi» autori. Ma si badi. Non è solo un problema di qualità intrinseche. È che i grandi scrittori di cui parlo, e in generale tutti i grandi scrittori, portano innovazioni nella sensibilità dei lettori, con mutamenti tematici e formali.
(...) Osservando una distanza più o meno grande, una comunità culturale tiene conto di questa funzione innovativa delle grandi opere. Invece di appellarmi al successo di vendita, o al numero di edizioni o di traduzioni, indicatori che ognuno sa quanto siano inquinati dall'industria culturale, posso invece segnalare due elementi che misurano bene l'apporto dato da un testo o da uno scrittore alla cultura. Il primo elemento è l'incoronazione di un'opera come «libro di testo». Cioè libri considerati indispensabili per la cultura di tutti, e perciò studiati, e in parte memorizzati, a qualche livello del curriculum scolastico. Nelle nostre scuole erano in pratica due per la nostra letteratura: la Commedia e i Promessi sposi, mentre per le letterature classiche erano «di testo» l'Iliade, l'Odissea e l'Eneide; altri, e non per intero, si aggiungevano facoltativamente. È però divertente che l'opera forse più memorizzata tra la fine dell'Ottocento e il Novecento sia lo scherzoso e parodico La partenza del crociato, oIl Prode Anselmo, di G. Visconti Venosta. L'eliminazione, recente, della categoria di «libro di testo» costituisce uno dei tanti fattori di disgregazione del nostro Paese. Vi figurate una Gran Bretagna dove nelle scuole non si studi più Shakespeare?
(...) Oggi il mondo è in preda a una globalizzazione che interessa e trascina civiltà sinora considerate lontane, altre da noi. Se anche rimanesse fermo tutto il resto, è inevitabile che si delineino altri canoni non solo soprannazionali, ma sopraculturali. Questo incomincia già ad accadere per il «racconto della storia», ma dovrà naturalmente estendersi anche alla letteratura. In caso contrario, ogni gruppo finirebbe per raccogliersi sotto la bandiera del proprio canone. Vari ghetti incomunicanti.
Ma per molti altri motivi è difficile dire se in futuro si parlerà ancora di canone letterario, dato che la letteratura stessa, almeno com'era concepita sino ad ora, può contare su una sopravvivenza molto precaria nel sistema delle attività artistiche. In più, un canone di autori e di opere implica la permanenza dei concetti di autore e di opera, la cui continuità e la cui validità al di sopra del tempo ispirano molti dubbi. Non alludo tanto alle critiche a questi concetti avanzate prima da Barthes, poi dai decostruzionisti; alludo al fatto che molte delle attività «nuove», cinema e televisione in prima fila, non fanno più riferimento a un autore individuabile, ma a una specie di cast: regista, soggettista, sceneggiatore, produttore, fotografo, e così via. Si diffonde il concetto di paternità frazionata.
(...) In questa situazione, che ho disegnato in forma caotica per alludere alla sua natura indubbiamente caotica, occorrerebbero menti rigorose e chiaroveggenti per costruire, o almeno progettare, un qualche ordine almeno momentaneo. Gli apporti delle varie tecniche e dei relativi punti di vista dovrebbero essere ordinati e specializzati a questo fine. Dal caos potrebbe, dovrebbe uscire l'armonia di un'orchestra. Anche con la coscienza che la mutabilità continuerà a imperare, e a mettersi in dialettica con le armonie eventualmente costruite.
Cesare Segre, Critica e critici, Torino, Einaudi, 2012
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• Cesare Segre (Verzuolo, Cuneo, 1928), filologo, semiologo e critico letterario, ha insegnato a Trieste e a Pavia, dove oggi è professore emerito e direttore del Centro di ricerca su testi e tradizioni testuali dell’Istituto universitario di studi superiori. Tra i suoi lavori: «I segni e la critica» (1969, poi 2008), «Notizie dalla crisi» (1993), «Per curiosità. Una specie di autobiografia» (1999), «Tempo di bilanci: la fine del Novecento» (2005) e «Dieci prove di fantasia» (2010), tutti editi da Einaudi
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• Cesare Segre (Verzuolo, Cuneo, 1928), filologo, semiologo e critico letterario, ha insegnato a Trieste e a Pavia, dove oggi è professore emerito e direttore del Centro di ricerca su testi e tradizioni testuali dell’Istituto universitario di studi superiori. Tra i suoi lavori: «I segni e la critica» (1969, poi 2008), «Notizie dalla crisi» (1993), «Per curiosità. Una specie di autobiografia» (1999), «Tempo di bilanci: la fine del Novecento» (2005) e «Dieci prove di fantasia» (2010), tutti editi da Einaudi
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