Emanuele Trevi, Anche Hitler va in Paradiso
Per scrivere una vera intervista impossibile il modello è Kurt Vonnegut
"La Lettura", 20 maggio 2012
Chi vi parla, dunque, è Kurt Vonnegut, oggi inviato emerito della wnyc nell’aldilà, che stavolta chiude la trasmissione per iscritto.Ciao ciao e adios. O, come mi disse san Pietro strizzandomi l’occhio, sornione, quando gli spiegai che quello era il mio ultimo viaggio di andata e ritorno in Paradiso: «Ci vediamo, bello». K.V. 8 novembre 1998 e 15 maggio 1999
Come si parla con i morti? Cosa ci rende in grado di farlo? Una tecnica faticosamente appresa o una virtù innata? E soprattutto: di cosa parlare, una volta stabilito il contatto? Non sono domande così immuni dal trascorrere del tempo storico come potrebbe sembrare a prima vista. Ogni epoca ha l’Aldilà che si merita, insomma, e difficilmente potremmo adattarci a quello degli egizi, o di Dante. Dove finiscono le certezze metafisiche, bisogna ricorrere a metodi più incerti e opinabili, a risorse interiori come l’umorismo, l’amore del paradosso, la provocazione. E va a finire che proprio un’operetta come Dio la benedica, dottor Kevorkian di Kurt Vonnegut (testo che inaugura la collana «mini», i nuovi tascabili di minimum fax), con la sua aria di scherzo macabro e opera assolutamente minore e marginale, sia per mole che per pretese, può svolgere molto degnamente il ruolo di un breviario, di uno strumento di meditazione, di un repertorio di illuminazioni. Come sintetizza Francesco Piccolo nella sua introduzione alla nuova edizione italiana di questo libretto prezioso ed inclassificabile, pubblicato in America nel 1999 (in Italia uscì da Eleuthera l’anno dopo), è possibile concepire un’opera «scema e intelligente allo stesso tempo», ovvero «una cosa importante che non sembri importante».
All’origine, l’esperimento non è nemmeno affidato alla lettura, ma all’ascolto radiofonico: il programma consiste nel racconto di un minuto e mezzo di «pre-morte» controllata, durante il quale Vonnegut compie delle spedizioni in Paradiso, intervistando ospiti celebri o perfetti sconosciuti. Come se il solo fatto di essere vissuti e morti fosse una pena sufficiente per qualunque delitto, nell’Aldilà di Vonnegut c’è solo il Paradiso. Anche Hitler, per dire, è finito in Paradiso. Tornato dalla sua escursione nel mondo dei morti, Vonnegut si dichiara «soddisfatto» di aver appreso che Hitler è «pieno di rimorsi» per tutto il male compiuto. Trentacinque milioni di vite umane stroncate pesano sulla coscienza in maniera inconcepibile, ma il famigerato defunto è convinto di aver pagato il suo debito «insieme a tutti gli altri». La sua speranza è quella che gli venga eretto un modesto monumento, una semplice croce di pietra, «magari proprio là dove, a New York, sorge il palazzo delle Nazioni Unite». Su questo monumento andrebbero incise, accanto alla data di nascita e di morte, solo due parole: «Entschuldigen Sie», ovvero «scusatemi», «perdonatemi».
Come si sarà capito da questo imbarazzante esempio, Vonnegut, non diversamente da quello che fa nelle sue opere maggiori, adotta una convenzione o un genere letterario ben riconoscibili per trasformarli in autentiche armi improprie intellettuali. E riesce a far sprizzare le sue anarchiche scintille anche dall’«intervista impossibile» a uomini illustri del passato, pedagogica e tranquillizzante erede della seduta spiritica. Qui in Italia il genere è ben noto, grazie a un fortunato ciclo di trasmissioni radiofoniche. Nessuno, credo, lo ha praticato meglio di Giorgio Manganelli, che non a caso è stato anche un sagace e minuzioso cartografo degli Inferi. Ma in genere, in questi dialoghi con i più celebri trapassati, prevale una finalità didattica, uno scrupolo informativo che tende più al documentario che all’esperienza fantastica in sé. Una volta ammesso che l’intervista è «impossibile», insomma, non si scava più di tanto in quella direzione. Come avviene in molte delle interviste impossibili di Piergiorgio Odifreddi, per esempio.
Tutto il contrario di quello che fa un teppista incorreggibile come Vonnegut. Il suo è un volo magico, un’esperienza sciamanica e nello stesso tempo una parodia, una sfida al senso comune. Basti pensare che a fare da guida al nostro inviato speciale in Paradiso, come un nuovo Virgilio degno di questo Dante irriverente e sovversivo, è Jack Kevorkian, il più noto alfiere americano del suicidio assistito per malati terminali. Quanto alle sedute di «pre-morte», Vonnegut immagina che si svolgano nella cella per le esecuzioni capitali del carcere texano di Huntsville. Ecco dove può spingersi la comica scorrettezza dell’impagabile Vonnegut: il corto circuito tra l’eutanasia e la condanna a morte aggredisce due pilastri fondamentali del moralismo e del fondamentalismo americani. Sono maschere di quella stessa follia che chiamiamo vita. La dissacrazione è il più vitale, il più filosofico dei gesti artistici, non solo perché abbatte gli idoli e i tiranni, ma perché rende possibile la nascita di un nuovo punto di vista, come un fiore che si fa strada fra le macerie.
In queste memorabili incursioni nell’Aldilà, l’autore di Mattatoio n. 5 si dimostra capace come pochi di affrontare le ferree necessità del discorso radiofonico facendone altrettante virtù letterarie. La brevità, per esempio, si rivela una risorsa preziosa, affila il senso del comico e dell’assurdo, quasi costringendolo a un fuoco di fila di efficacissime semplificazioni. Una volta che, incontrato Shakespeare, non si è trovato di meglio da dire che complimentarsi per gli Oscar vinti da Shakespeare in Love, è ovvio che il dialogo prenderà una brutta china, come un pezzo di teatro dell’assurdo riscritto da Groucho Marx. «Non abbiamo legato», confessa sornione Vonnegut, e quando il Bardo gli chiede conto dell’inglese più brutto mai ascoltato, lui gli risponde una sola parola: «Indianapolis».
Ma quella dell’impavido gaffeur è solo una delle pose assunte durante le spedizioni in Paradiso. Nell’imprevedibile tastiera di Vonnegut c’è sempre spazio per ogni tipo di accordi, e la brevità esalta la varietà. La commozione e l’ammirazione prevalgono di fronte a ospiti del Paradiso come Salvatore Biagini, pensionato settantenne di Queens, morto per una crisi cardiaca mentre cercava di salvare il suo amato schnauzer, Teddy, dall’aggressione di un pitbull. All’inviato speciale nell’Aldilà sorge spontanea l’unica domanda da fare a questo nobile rappresentante della specie umana: cosa si prova a morire per uno schnauzer di nome Teddy? Mille volte meglio che essere morti «per niente» nella guerra in Vietnam, risponde il «filosofico» Salvatore Biagini, guadagnandosi per sempre il posto che gli spetta nella memoria dei lettori.
Ma la più bella battuta di questa Divina Commedia ridotta all’assurdo spetta all’onnipresente, ironico san Pietro, quando suggerisce a Peter Pellegrino, pioniere del volo sul pallone aerostatico, che «se sulla Terra fosse stato un consumatore di crack, anche il Paradiso sarebbe stato una delusione». E Vonnegut, chiuse le virgolette, si affretta a precisare che san Pietro parla «ironicamente, si capisce». È come se lo vedessimo, il vecchio scrittore, l’indomabile ribelle, il rappresentante di una razza di americani quasi estinta, mentre ci strizza l’occhio. In Paradiso, ad ogni modo, si può avere per sempre l’età che si desidera. «Mio padre», riferisce Vonnegut senza tradire nessuna emozione, «ha appena nove anni». Ma di un tocco del genere, non sono capaci solo i grandi poeti?
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