domenica 15 luglio 2012

Paradisi artificiali e letteratura



I paradisi artificiali di De Quincey e Baudelaire. 
L’oppio, la creazione, le tenebredi Pietro Citati, "la repubblica", 26/06/2009

Non so quello che i lettori italiani conoscano di Thomas De Quincey. Molti hanno letto Le confessioni di un mangiatore d’oppio inglese. Ma il resto? Il resto di quest’opera frammentaria, spezzettata, e vasta come l’universo? Dopo qualche mese di convivenza con Thomas De Quincey, dopo aver attraversato le confessioni, i racconti, i saggi, i capricci, i ritratti, gli scritti di prodigiosa erudizione, ne sono uscito con un’impressione di grandezza assoluta, come se uno spirito benigno mi avesse rivelato un nuovo continente. Ci sono molti dilettanti geniali, che hanno il dono di attirare e assimilare tutte le cose nella loro sfera, o di disperdersi in tutte le direzioni. Ma De Quincey era molto di più. Non era soltanto uno scrittore: era, da solo, una intera letteratura. Immaginate un oratore greco del quarto secolo, che ha vissuto all’ombra di Demostene: quest’oratore rinasce al tempo di Tacito, ama e odia l’Impero romano, rappresenta le folle barbariche che premono contro i confini;e poi rivive nell’età di Agostino, nutrendosi del senso di colpa e di redenzione cristiano, ed ereditando quella meravigliosa retorica, colma di interrogativi, di parallelismi, di opposizioni, di ansie, di lacrime e di miele. Immaginate che quest’uomo rinasca nell’epoca elisabettiana, quando fiorisce una «pompa carnevalesca di esistenza appassionata, che respira, si muove, agisce, soffre e ride»: quest’uomo non ha la forza di imitare Shakespeare, ma contempla la sua poesia, scrivendo una stupenda prosa barocca, grondante della sapienza letteraria di ogni tempo. Col secolo successivo, miracolosamente egli si alleggerisce: conversa con le dame; compone un racconto secco, leggero, avventuroso come quelli di Voltaire (La monaca militare spagnola). Diventa romantico: amico o nemico fraterno di Coleridge e di Wordsworth: studia la metafisica tedesca: scrive un racconto di Kleist (Il vendicatore); intona la più morbida e solenne delle musiche dell’anima. Muore ma la sua morte anticipa i tempi. Le sue figure del cuore, le sue folgorazioni liriche sono già quelle di Baudelaire: la sua Londra è quella di Dickens - e il paese del delitto, dove avanza con passo allucinato e implacabile, è quello di Dostoevskij. Questo scrittore che attraversa i secoli ama il mistero. Ama tutto ciò che sta dietro i pesanti tendaggi del segreto. «Rimanere nascosto nella folla è sublime; passare di generazione in generazione, ignorato dalla moltitudine, è doppiamente sublime». In un saggio bellissimo, dichiara la sua passione per Le società segrete: per quegli uomini, legati da un amore fraterno e da una perfetta fiducia, che s’incontrano nel cuore della notte in sale nascoste per progettare «una lampada solitaria di verità» - verità metafisica, eterna, sempre eguale attraverso i tempi, che ferma il transitorio e vince il Tempo, «questo sinistro seminatore di confusione». L’opera di De Quincey non è diversa. Come una intera società segreta, eredita verità antiche di secoli e le fa conoscere ai figli del futuro, in modo che la catena aurea non venga mai interrotta. Assomiglia a un labirinto. Chi potrebbe dire di conoscerla veramente? Ci inoltriamo nelle sue strade, in migliaia di vie laterali, negli infiniti frammenti in cui il grande libro è esploso: incontriamo alberi, laghi, rocce, località sempre nuove; e via via che procediamo, affascinati dalle meraviglie del mistero, non riusciamo a raggiungere il cuore del labirinto, e ci convinciamo che l’ultima parola su questo scrittore-universo non verrà mai detta. Su questo mistero grava il più strano dei paradossi. Thomas De Quincey non è uno scrittore che celi i suoi testi, come un Esseno o un Rosacrociano, in pochi codici o volumi, che pochissimi adepti possono leggere. Scrive per tutta la vita sui giornali e le riviste del tempo: obbedisce alle richieste del direttoree del redattore-capo: suddivide le sue opere in puntate o in schegge talora pubblicate a distanza di anni; e così il segreto, che egli vorrebbe conservare, viene gridato sui tetti, spalancato alle folle. Forse c’è, in De Quincey, una vena di mistificatore, che si prende gioco delle cose più care: o di traditore, che vende al pubblico la «lampada solitaria della verità». Lui, che scrisse un saggio in difesa di Giuda, ha un lato di Giuda. Come quella di Poe, la sua opera è divorata dai nervi, dalla fretta, dalla precipitazione, dall’ansia. Con lui comincia la tragedia della letteratura moderna, da Poe a Balzac a Baudelaire a Dostoevskij, legata alle prime forme della comunicazione di massa. Thomas De Quincey sa benissimo che questa condannaè il suo privilegio. Il giornalismo gli impone un dono tremendo: la fretta. E la fretta dà una specie di felicità alla sua ispirazione: immagini sorprendenti, raccourcis geniali, rapidissime folgorazioni. Soprattutto la fretta e l’improvvisazione fanno «penetrare nella coscienza delle energie creatrici, che altrimenti sarebbero rimaste nel sonno per una vita intera». Con ciò il giornalismo rivela la sua funzione provvidenziale. Tutta l’ininterrotta esplorazione dell’ombra, la disperata interrogazione dell’inconscio, che la letteratura moderna comincia a intraprendere negli anni di De Quincey, non sarebbe forse venuta alla luce se il giornalismo non avesse imposto questa improvvisa accelerazione del processo creativo. Non sappiamo quando Charles Baudelaire abbia letto per la prima volta Le Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas De Quincey, scritte nel 1821. Quando le lesse, se ne innamorò perdutamente. E, nel 1860, pubblicò I paradisi artificiali. Oppio e Hascisc (BUR, ben curato da Nicola Mischitiello, pagg. 216, euro 8): uno dei suoi capolavori. Il libro comprende una traduzione parziale di De Quincey: un riassunto ugualmente parziale; e una parte che appartiene a Baudelaire. Tutto ciò che egli tocca, diventa interamente suo: egli è «l’ape che trae indifferentemente i suoi materiali dalla rosa e dalla fuliggine dei camini»; come se la sua vera vocazione fosse quella di esprimersi attraverso un altro, Poe e De Quincey, diventando ancora più profondamente sé stesso. Qualsiasi cosa traduca o trascriva, vi lascia cadere la sua eloquenza pastosa e liquida, la sua dolcezza vellutata, che placa tutte le nostre inquietudini, o quella acuta leggerezza, che stimola le più ardite invenzioni intellettuali. In quest’opera di trasformazione e di appropriazione, egli è un classico: Virgilio che assorbe Omero. Nella letteratura moderna, nessuno scrittore gli è, per questo aspetto, simile o affine. Fin dalla giovinezza, Baudelaire praticava le droghe: l’hascisc, l’ oppio e quel prodigioso eccitante che è l’alcol, e si interessava alla letteratura sulle droghe. Era un uomo fatto di sensazioni, come un altro è fatto di muscoli e carne. Le droghe gli permettevano di trasformare le sensazioni, raggiungendo qualcosa che non si trova in questo mondo: i loro effetti diventavano più intensi: si intrecciavano, si moltiplicavano e si fondevano; diventavano più aguzzi e penetranti, fino a raggiungere la punta acuminata dell’infinito - l’unica, vera meta dei suoi desideri. Il suono diventava colore, il colore diventava suono; e tutto avveniva in un variegato e vertiginoso spettacolo della mente. «Ci sono giorni scriveva - in cui l’uomo si sveglia con un genio giovane e vigoroso. Appena le sue palpebre sono liberate dal sonno che le sigillava, il mondo esterno gli si offre con un rilievo possente, una nettezza di contorni, una ricchezza di colori meravigliosa. Ma cosa c’è di più singolare in questa condizione straordinaria dello spirito e dei sensi, che senza esagerazioni posso chiamare paradisiaco, se la paragono alle pesanti tenebre della comune esistenza quotidiana, è che essa non viene creata da nessuna causa visibile e facile da definire». Questo voleva Baudelaire: vivere il giorno paradisiaco. Giunto in questa condizione, Baudelaire sentiva il fascino dell’acqua: quando le acque correnti, i getti d’acqua, i laghi trasparenti, le cascate armoniose, l’immensità azzurra del mare, rotolavano, dormivano, suonavano, cantavano, in fondo all’abisso del suo spirito. A volte, questa seduzione lo incantava sino al terrore. L’acqua diventava una qualità interna: una fluidità nervosa, nella quale si esprimevano tutti i suoi impulsi. Allora egli raggiungeva la qualità suprema: la liquida femminilità e la liquida androginia. «L’uomo - scriveva Baudelaire a nome proprio e di De Quincey che, da principio, è stato a lungo immerso nella molle atmosfera della donna, nell’odore delle sue mani, del suo seno, delle sue ginocchia, della sua capigliatura, delle sue vesti morbide e fluttuanti, dolce bagno profumato dai suoi unguenti, vi ha contratto una delicatezza d’epidermide e una distinzione d’accento, una specie di androginia, senza le quali il genio più aspro e virile resta incompleto». In ogni eccitante e in ogni droga, Baudelaire e De Quincey scoprivano un mondo diverso. L’oppio era il contrario dell’alcol. L’alcol era una fiammata: l’oppio dava calore eguale e costante. L’alcol disordinava le facoltà mentali: l’oppio le ordinava nel modo più squisito, le disciplinava, le armonizzava. L’alcol privava l’uomo del dominio di sé: l’oppio lo aumentava grandemente. L’alcol ottenebrava il giudizio, dando un’eccitazione innaturale ai sentimenti: l’oppio comunicava serenità ed equilibrio a tutte le facoltà, attive e passive. L’alcol conduceva alla stravaganza: l’oppio calmava ciò che era agitato, concentrava ciò che era disperso. L’alcol esaltava le parti umane e animali della nostra natura: l’oppio faceva dominare la nostra parte divina, diffondendo su tutte le cose la luce dell’intelletto. Un bicchiere di laudano faceva diventare simultanee le cose accadute in momenti diversi, liberandoli dalla successione del tempo: un’intera esistenza era rinchiusa in un attimo, un mondo concentrato in un barbaglio accecante. Così l’oppio affidava a De Quincey e a Baudelaire l’unico dono a cui veramente aspirassero: una scintilla d’eternità nel cuore della vita. Nella cultura delle droghe, vi era un aspetto più terribile: l’esperienza del male, la conoscenza delle tenebra. I veleni, che Baudelaire scoprì specialmente nell’hascisc, gli sembravano non solo uno dei mezzi più sicuri di cui disponga lo Spirito della Tenebra per asservire gli uomini, ma anche una delle sue incarnazioni più perfette. Con tutta la forza della volontà, Baudelaire cercò di rinunciare alle droghe, ma non alla ricchezza di sensazioni che gli procuravano: il fervore e l’illimitatezza delle immagini, i colori e i suoni trasformati, la punta acuminata dell’infinito. Voleva trovare queste sensazioni nel cuore profondo della sua immaginazione e della sua poesia, ricevendo dalla grazia celeste i doni che Satana cercava di offrirgli. Come aveva scritto nell’epilogo delle Fleurs du mal, «Ho estratto la quintessenza di ogni cosa. Tu mi hai dato del fango, e io ne ho fatto dell’oro».
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