mercoledì 11 luglio 2012

A la recherche de Proust



Alessandro Piperno, Tutti pazzi per Proust, “La Lettura”, 18 marzo 2012

Perché in tempi di romanzetti smilzi — lessico corrivo, sintassi elementare, contenuti demenziali — Marcel Proust, ovvero il più prolisso scrittore di ogni tempo, continua a spopolare? Perché la pachidermica Recherche pare godere di miglior salute di altri sfavillanti capolavori modernisti (Ulisse, L’uomo senza qualità, I sonnambuli…)?
Questo articolo è un maldestro tentativo di rispondere a tali difficili quesiti.
Vorrei togliermi subito dai piedi le risposte ciniche. È evidente che non tutti gli acquirenti della Recherche riescono a superare le colonne d’Ercole del primo centinaio di pagine. Così come è ovvio che in circolazione ci saranno un sacco di millantatori pronti a giurare di averla letta e riletta una dozzina di volte. A proposito di risposte ciniche, la più spassosa me l’ha data giorni fa Raffaele Manica. Da me interrogato sulla questione, mi ha detto: «Forse, in tempi di crisi, quei volumoni ti illudono di aver fatto un ottimo investimento immobiliare».
Ma i lettori che qui mi interessano sono di altra stoffa: quelli che, entrati a fatica nel Paese delle Meraviglie della Recherche, scoprono di non potersi più liberare dall’incantesimo. Quelli che trovano insipida qualsiasi altra lettura. I tarantolati della Recherche. I massoni della Madeleine in bocca!
Il seguente decalogo dovrebbe spiegare per sommi capi perché gli adepti di questo club pseudo-esclusivo crescano generazione dopo generazione:

1) Vita-arte-mito
La cosa buffa è che Proust ce l’ha messa tutta a mettere in chiaro che tra la sua vita e le avventure vissute dal suo eroe non esisteva alcuna relazione. Improvvisamente, ultratrentenne, dopo averle tentate tutte, Proust si deve essere reso conto che il solo argomento di cui poteva scrivere era quello per cui provava maggiore vergogna: la sua vita. Alla fine si arrese, non senza aver diffidato qualsiasi lettore dal leggere la Recherche come un’autobiografia, e non senza aver insultato preventivamente i ficcanaso in procinto di violare la sua privacy. Ebbene, a costo di incappare nella sua ira postuma, trovo che dire che la Recherche sia l’autobiografia di Marcel Proust non sia meno idiota di affermare (come facevano Barthes, Nabokov e tanti altri) che l’autobiografia proustiana non contribuisca in modo determinante alla fruizione estetica della Recherche. Sfido qualsiasi lettore a provare a immaginare il Narratore senza baffi e con un’abbronzatura da velista. Ma su, la verità è che nessuno più di Proust ha saputo giocare, più o meno intenzionalmente, con il proprio mito. La forza della Recherche sta proprio nella promiscuità tra vita, mito e invenzione artistica. La leggenda — tanto suggestiva per i suoi contemporanei quanto lo è per noi — del dilettante mondano che, dopo una giovinezza debosciata, si chiude in casa per portare a termine un’opera capitale, a costo del sacrificio della propria vita, è, per l’appunto, una leggenda. Ovvero una pacchiana trasfigurazione della verità. Ma è indubbio che tale leggenda continui a lavorare per la longevità della Recherche. La gente ama i martiri. Ancora oggi i lettori adorano chi si sacrifica per la propria opera. Ebbene, nessuno ha dato l’impressione di averlo fatto più e meglio di Marcel Proust.

2) Happy end
Questo ci introduce naturalmente al secondo punto. Sebbene la Recherche sia un libro spaventosamente nichilista, sebbene la visione del mondo proustiana abbia più di un punto in comune con quella leopardiana (uno scetticismo apocalittico che liquida la vita — non tanto come un’esperienza demoralizzante — ma come un’avventura insensata, macabra e beffarda), resta nel lettore la sensazione che questo libro terribile finisca bene. Il Narratore ritrova il Tempo, scopre di essere artista, si mette a scrivere, riscatta la sua vita e vissero tutti felici e contenti… Già nel 1931 il giovane Samuel Beckett fustigava i lettori proustiani che si bevevano la favola secondo cui alla fine dell’opera il Narratore ritrova il Tempo perduto. Il Tempo non può essere ritrovato, ci ammonisce Beckett, tutt’al più può essere cancellato per qualche istante; e Proust, aggiungerei io, era il primo a saperlo. Non a caso lo spettacolo che ci offre nel «ballo in maschera» nelle ultime pagine del Tempo ritrovato, non ha niente di confortante. Anzi, la furia con cui il Tempo si abbatte sui luoghi e sui personaggi proustiani ha una brutalità dantesca. Ciò non di meno il lettore esce dalla Recherche con la tonificante impressione che per una volta il Bene abbia trionfato.

3) Felicità e delusione
E tuttavia, a costo di smentire ciò che ho appena scritto, la Recherche non è un’opera cupa. Ci sono grandi scrittori — Flaubert, Dostoevskij, Céline, Kafka — per lo più incapaci, per temperamento o per ideologia, di raccontare la felicità. Ottusamente convinti che essa non trovi albergo nella nostra vita. Proust appartiene alla famiglia opposta. Lui sa cos’è la felicità, non meno di quanto lo sapessero Stendhal, Tolstoj e Fitzgerald. E proprio perché la conosce, sa bene quanto essa sia pericolosa per chi le dà credito. D’altro canto solo chi sa cosa significa aspirare alla felicità può raccontare il senso di scacco che essa ti lascia dentro quando tradisce le tue aspettative. Solo chi ha scommesso sulla felicità può raccontare la delusione come Proust l’ha raccontata. Converrete con me che ogni grande romanzo potrebbe intitolarsi, a seconda, Grandi speranze o Illusioni perdute. Ecco, la Recherche potrebbe intitolarsi tranquillamente: Le illusioni perdute di chi ha coltivato grandi speranze.

4) Incantesimo stilistico e traducibilità
Al liceo (il famoso Condorcet) il giovane Marcel non prendeva buoni voti negli elaborati di francese. In un ambiente culturale forgiato dal rigore cartesiano la prolissità del ragazzo, la sua passione per l’ipotassi, la vocazione a divagare, non dovevano essere ben viste. Quasi un secolo dopo ci sono ancora un sacco di lettori — il nutrito esercito dei fan della «scorrevolezza» — che trovano lo stile della Recherche indigeribile. Che lo vivono come un ostacolo. Che lo trovano tedioso in un modo sconcertante. La verità è che lo stile di Proust (così inconfondibile e, per altro, così facile da imitare) non è un ostacolo al successo della Recherche, ma semmai uno dei suoi segreti. La prosa proustiana non è poi così raffinata come si dice. Flaubert e d’Annunzio erano decisamente più attenti di Proust alle sfumature della frase e alla precisione lessicale. Nelle prime tre righe della Recherche, Proust ripete ben tre volte la parola «tempo». Oggigiorno qualsiasi redattore di casa editrice glielo segnerebbe come errore. Il vocabolario proustiano è ripetitivo e non sempre appropriato alle circostanze. Lui non gioca con la lingua come Joyce o Gadda. E questo lo pone nella schiera fortunata degli scrittori traducibili in moltissime lingue. E di certo tale traducibilità giova alla sua fortuna internazionale.

Il «tono Proust» (così lo chiamava Giacomo Debenedetti) è totalmente affidato alla sintassi. È l’intrico sintattico a conferire all’incedere proustiano quel tono suadente, melanconico e solenne. Esso funziona come un sortilegio. Ti avvolge pian piano, ti carezza, ti ipnotizza. Al principio resisti, ma quando ci entri dentro ti vizia fatalmente, come certi alimenti che scatenato dipendenza. Il che offre un vantaggio straordinario al lettore seriale. Egli può afferrare dalla libreria un volume qualsiasi della Recherche, aprirlo a caso e cominciare a leggere. Basteranno pochi istanti per ritrovarsi ancora una volta immerso in un mondo fiabesco. Non mi stupirei se qualche amante della statistica rivelasse un giorno che la Recherche è il romanzo più «riletto» del mondo.

5) Misteri enigmistici
Proust doveva essere terrorizzato dall’idea che il suo libro diventasse un classico. Cioè una di quelle opere ingessate e noiose, ormai affidate alle cure degli accademici. Per uno come lui che temeva così tanto il potere annichilente del Tempo, e che aveva vanagloriosamente scommesso sulla propria perpetuità, l’idea che un giorno la sua grande opera potesse giacere su qualche polveroso scaffale dimenticato doveva essere una specie di incubo. Che non sia stato questo a spingerlo a concepire un’opera così aperta, piena di trabocchetti, inganni, sentieri misteriosi e passaggi segreti. Anni fa due grandi studiosi italiani — Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria — hanno provato, con un lavoro monumentale, a illuminare tutti gli angoli oscuri nella Recherche. Un’impresa ultradecennale i cui frutti oggi corredano meravigliosamente l’edizione dei Meridiani Mondadori. Basta mettere il naso in quel mostruoso apparato di note per capire quale bottino infinito sia la Recherche. D’altronde finché offrirà ancora qualcosa da scoprire, la Recherche resterà giovane come una fanciulla. Questo Proust lo sapeva bene.

6) Soap opera
Così come sapeva bene che, per accalappiarlo, occorreva regalare al lettore un po’ di sana inverosimiglianza romanzesca. E non si tirò certo indietro. La Recherche è piena di furbe incongruenze. Per non dire delle coincidenze e dei colpi di scena che non perdoneremmo a una soap opera. Guarda caso il Narratore è sempre al posto giusto al momento giusto. Pronto a spiare da una finestra i giochetti omoerotici della figlia di Venteuil e quelli sadomaso del Barone di Charlus. D’altro canto è improbabile (anche se così beffardamente toccante) che alla fine del libro sia proprio Madame Verdurin a diventare Principessa di Guermantes. E potrei continuare all’infinito…

7) Il tempo romanzesco
Nabokov, nelle sue lezioni di letteratura russa, sostiene una cosa davvero interessante sui romanzi di Tolstoj. Il tempo in Anna Karenina, spiega Nabokov, scorre alla stessa velocità del tempo della nostra vita. Questo, secondo Nabokov, contribuisce a donare alla narrativa tolstoiana quel senso di stupefacente naturalezza che tutti conosciamo. Nella Recherche le cose funzionano in modo tutt’affatto diverso. Il tempo in Proust è decisamente rallentato. Una festa può durare anche trecento pagine, un’emozione espandersi all’infinito. Il che, ne convengo, può provare i nervi anche del lettore più benintenzionato. E tuttavia anche questa estenuante dilatazione nasconde un risvolto positivo. In tal modo Proust rende ancor più spesso e drammatico il diaframma che divide il Tempo perduto dal Tempo ritrovato, regalando al lettore un’emozione del tutto inedita. Quando, infatti, arrivi alle ultime pagine, sfiancato e commosso, hai davvero l’impressione di aver partecipato a un’esperienza lunga e difficile come la vita umana. Quando finisci la Recherche ti senti più vecchio di dieci anni. E quando ti capita di ripensarci sei triste come di fronte alla tomba di un amico.

8) Iniziazione
A proposito, visto che per finire la Recherche ci vogliono circa quattro mesi (questo è un mio calcolo che lascia il tempo che trova), è evidente che un simile tempo di lettura comporti uno sforzo di intelligenza e di immaginazione fuori dal comune. Questo colma il cuore del lettore della tipica fierezza dell’iniziato. Lui non sta leggendo un libro, lui sta prendendo i voti. Qualcosa di analogo avviene ai wagneriani incalliti. E bisognerà pure comprenderli. Per qualsiasi individuo sensibile non deve essere facile, dopo quattro ore e mezzo di Parsifal, concepire l’idea di poter ascoltare qualsiasi altra musica. Almeno per un po’.

9) Il cuore umano
Ma al di là delle innumerevoli considerazioni, più o meno sensate, più o meno sentenziose, con cui ho ingolfato questo articolo, resta il fatto che la cosa più grande che Proust abbia saputo fare per i suoi lettori è realizzare compiutamente il grande sogno baudelairiano: denudare il cuore umano fino allo strazio. L’asprezza, la ferocia, il cinismo, ma anche la comprensione con cui lui ha saputo esplorare quel sobbalzante tremebondo muscoletto, non ha uguali. Amore, invidia, gelosia, risentimento, snobismo… Non c’è sentimento intimo né comportamento sociale su cui Proust non abbia detto la parola definitiva. E forse questo spiega anche perché dopo di lui la narrativa francese sia implosa sempre più, fino a diventare così internazionalmente irrilevante.

10) Il più grande romanzo francese di sempre
La letteratura francese, appunto: c’è qualcosa che la distingue da tutte le altre. Il fatto di non avere un grande iniziatore, una sorta di padre fondatore. Gli inglesi hanno Shakespeare. Noi abbiamo Dante. Gli spagnoli Cervantes. Gli americani Melville. E i francesi? Com’è possibile che la Francia, il paese della letteratura, il paese che celebra i suoi scrittori come condottieri, il paese delle querelles e delle accademie, sia sprovvisto di questo genio-faro, questo immaginifico capostipite, che inventa una lingua e raccoglie in sé l’essenza dell’intera tradizione che da lui trarrà ispirazione? È una cosa su cui gli storici della letteratura si sono sempre interrogati.

La mia modestissima impressione è che i francesi quello scrittore ce l’abbiano e come. Solamente che lui non ha avuto l’onore di aprire una tradizione, ma il torto scellerato di chiuderla. Proust è quello scrittore. Nessuno potrà negare che nella Recherche convivano splendidamente le anime di Montaigne, di Saint-Simon, dei moralisti classici, di Diderot, di Flaubert, di Balzac, di Baudelaire e di tanti altri ancora. Ed è toccante per me pensare a quanto sarebbe stata fiera sua madre, la serafica Madame Proust, di quel figlioletto su cui nessuno avrebbe scommesso un franco.

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