domenica 15 luglio 2012

Informazioni


La scrivania di T. S. Eliot, 1965


G. Corbellini, Informati e (più) sapienti, "Il Sole 24 Ore", 1 luglio 2012

«Dove è la saggezza che abbiamo perduto sapendo/Dov'è la sapienza che abbiamo perduto in informazione?» Thomas Eliot scriveva questi versi nel 1934, nella stanza iniziale dei Cori da «La Rocca» testimoniando, con una metrica sublime, il disorientamento di un umanista non più in grado di capire i cambiamenti, quel che accade nel mondo. Così si rivolge con rimpianto al passato, che forse gli appare (ingannevolmente possiamo oggi dire) più intellegibile.

Il cospicuo tomo di James Gleick sulla storia culturale dell'idea di informazione, e delle tecnologie per trasmetterla ed elaborarla, cita, ovviamente, anche quei versi. Assecondando, negli ultimi capitoli, il luogo comune che l'aumento quantitativo, prodigioso e inarrestabile di informazioni costituisca una perdita, o quantomeno un impoverimento culturale. In realtà, non è così. Prova ne è anche la ricchezza e l'originalità del suo libro. Che nel ricostruire l'evoluzione delle tecnologie e delle idee sviluppate dall'uomo per spiegare e governare la comunicazione tra sistemi organizzati, cioè macchine naturali o artificiali, mette a fuoco esperienze, problemi e personaggi sconosciuti ai più. E fa scoprire, anche a chi questi temi li ha studiati, cose nuove. Proprio grazie al fatto che saggezza e sapienza sono state scomposte in informazioni accessibili con sempre più facilità.
In realtà, Gleck ha scritto due libri in uno. La storia del problema di usare in modo efficiente i canali di trasmissione dell'informazione, dalle diverse forme di comunicazione basate sul trasferimento dei segnali sonori attraverso diversi supporti fisici (carta, suono o luce), quindi dei tentativi di quantificare l'informazione trasmessa in una linea di comunicazione, fino alla scoperta da parte di Claude Shannon della legge che governa la riproduzione di un messaggio da un punto a un altro di un sistema di comunicazione. E la storia di come si è arrivati a meccanizzare, attraverso i calcolatori basati sui principi scoperti da Turing e von Neumann, la struttura logica e computazionale del ragionamento umano.
Certo, Gleick prende qualche abbaglio. Però, sulla natura dell'informazione, scienziati autorevoli – non escluso Shannon, che l'ha definita matematicamente – hanno fatto o ingenerato confusioni. Per esempio, la superficiale decisione di Shannon (sulla cui origine esistono almeno tre versioni!) di chiamare «entropia» la misura della quantità di informazione, ha dato la stura a un'inesauribile produzione di speculazioni sui rapporti con l'entropia termodinamica di Clausius, per trovare collegamenti fisici (diciamo meglio metafisici) tra il teorema H di Boltzman (S = k log W, scolpito sulla sua lapide) e quello di Shannon. In realtà, si tratta di equazioni che definiscono dei repertori di variabilità statisticamente possibili, in contesti fisici che non hanno alcun rapporto tra loro. E anche la tradizione che, dopo Erwin Schrodinger e Léon Brillouin, ha provato a chiamare «entropia negativa» o «neghentropia» l'informazione immagazzinata nelle strutture ordinate, e a definire gli organismi viventi macchine che consumano neghentropia, non è più che una suggestione in cerca di credenziali filosofiche. In che modo la materia e l'energia catturate nelle forme viventi creano, elaborano e trasmettono l'informazione è una questione un po' più complicata della mera logica sottostante il codice genetico, o del giochetto inutile di calcolare in bit il contenuto di informazione del Dna, o di una cellula, di un cervello, di un organismo o di un ecosistema.
Tornando a Eliot, vorrei provare a spiegare perché con l'informazione non abbiamo perso nessuna sapienza, e la comprensione di come stanno le cose non cancella la saggezza. Con buona pace di Ceronetti & Co., che assillanti, lamentosi e narcisisticamente autocompiaciuti (nonché ben pagati) lanciano quotidianamente anatemi contro la modernità, denunciando la perdita di presunte saggezze e saperi arcaici. Qualcuno vorrebbe sostenere che non imparare più il linguaggio dei tamburi con cui comunicavano le tribù africane, il cui studio linguistico è ben descritto da Gleick, significa per chi oggi vive e comunica in quelle regioni aver perso qualcosa? Oppure che per il fatto che oggi si usino gli sms e nessuno impara più a comunicare con il Codice Morse e un tasto del telegrafo elettrico, vuol dire privare i nostri ragazzi di un sapere in qualche modo superiore? 
In realtà, queste domande andrebbero rivolte alle donne, agli uomini e ai bambini che vivevano quando si dice che c'erano «saggezza e sapienza» (e mancavano le informazioni o i telefonini). Che, in larga maggioranza, sono morti per malattie oggi sparite o guaribili (grazie alle informazioni accumulate facendo esperimenti), si nutrivano male (perché i raccolti dei contadini prima delle scoperte della genetica facevano schifo) ed erano analfabeti (quindi incapaci di difendersi dalle violenze e ingiustizie).
Inoltre. Eliot usava il termine «information» col significato di «sapere comunicato», attestatosi nella lingua inglese già a età del XIV secolo (stando all'Oxford English Dictionary) e derivato dal latino informare. Ora, il termine con cui, fino al 1928 i tecnologi di lingua inglese chiamavano questi messaggi, non era information, ma intelligence (che si riferiva peraltro ai dati segreti, e rispetto ai quali ancora mantiene una referenzialità). Come ci ricorda Gleick la prima formula di Nysquit del 1924 quantificava l'«intelligence», e fu Hartley quattro anni dopo a indicare con il termine informazione un quantità misurabile. Dunque l'informazione di cui parla Eliot è solo l'idea di senso comune, implicita nel significato del verbo latino informare, cioè «dar forma» o istruire. Con questo significato ancora l'usiamo, anche per intendere l'apprendere qualcosa. 

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