domenica 15 luglio 2012

Lingua poetica e pensiero



A. Benini, Il cervello in versi, "Il Sole 24 ore", 17 luglio 2011

La lettura di sostantivi, verbi e aggettivi con contenuto negativo (guerra, nazismo, torturare, distruggere, infame, morto) e positivo (amore, libertà, ridere, baciare, grandioso) provoca la modificazione opposta delle pupille, della frequenza del polso, del colorito della pelle. Parole con intenso contenuto emotivo (le "parole tabù") rallentano la lettura. In Germania una delle parole più amate è "Libelle" (libellula) per la bellezza del suono e per la grazia dell'insetto. Se si legge «Il poeta scrisse le poesie con l'inchiostro» il cervello ha un'attività che, con una frase senza senso («Il poeta scrisse col sangue o col burro»), cambia per verificare la necessità di scartarla. Se leggiamo in un resoconto di una partita di calcio che il giocatore tal dei tali ha tirato in porta col piede destro, si attivano nel cervello le aree del linguaggio e l'area motoria del piede destro, anche se il nostro piede non si muove. Se, dopo aver letto un paio di volte quel resoconto, diamo un calcio al pallone col piede destro, lo facciamo meglio di prima della lettura. Leggere o ascoltare significa trasmettere ai centri cerebrali segnali visivi o acustici che arrivano alla coscienza come parole con un significato, un senso, un tono, un ritmo, un'emozione, un'immagine. Il linguaggio diventa sostanza della coscienza modificando la struttura e il funzionamento di aree del cervello oltre a quelle proprie del linguaggio. Riflessioni e ragionamenti letti o ascoltati possono cambiare una biografia, una poesia può esprime con intensità ciò che altrimenti è impossibile dire, una novella e un romanzo possono dirci sulla vita più di qualunque testimonianza. Raul Schrott, poeta, saggista e traduttore (dell'Iliade in tedesco) e il neuropsicologo Arthur Jacobs studiano il rapporto fra cervello e linguaggio concentrandosi sulla poesia come uno degli eventi del cervello che costruisce la realtà in cui viviamo. Parole scritte in un certo ordine suscitano il sentimento della poesia, se manca la forma il loro significato si sbriciola e sparisce. Da dove viene l'ispirazione poetica? Perché l'uomo (il suo cervello) ha creato la poesia? La poesia è solo un addobbo estetico della vita o ha un significato profondo? Perché i versi sono righe brevi? Perché la poesia – e solo la poesia – si serve della rima? Perché le poesie si ricordano meglio delle frasi della prosa? Domande in parte antiche, cui le neuroscienze cognitive si avvicinano con cautela, anche perché la tradizione millenaria della poesia, nella società attuale, ha perduto parte della sua importanza. Gli autori, consapevoli che nessuna ricerca penetra nelle sincronizzazioni dei neuroni che creano la poesia, rintracciano – con le metodologie delle neuroscienze cognitive – le aree attive nel cervello quando si crea, si ascolta, si legge, si gode la poesia. Il limite della metodologia è che non si sa ciò che in quelle aree succede. Il dato sperimentale non ci dice quel che stia provando la persona di cui si studia il cervello. 
La poesia, sostengono Schrott e Jacobs, si accompagnò alla musica per la necessità di aumentare la forza della memoria in un tempo in cui (fino a circa 5 mila a.C.) non esisteva il linguaggio scritto. Il legame fra poesia e musica è confermato dall'analogia con cui esse integrano melodie, toni e ritmi; le differenze dai diversi disturbi della parola e della musica in lesioni del cervello. Ravel, impedito nel parlare da un ictus, continuò ad amare e sentire musica. Schebalin, dopo diversi ictus, non poteva quasi più parlare, ma compose sonate, lieder, quartetti e una sinfonia che, per Schostakowitsch, è meravigliosa.
Il potenziamento della memoria a opera della musica è confermato da esperimenti di neuropsicologia secondo i quali sequenze complicate di parole vengono imparate più rapidamente e stabilmente con un discreto sottofondo musicale. È esperienza comune che, grazie alla componente ritmica, i versi si ricordano più a lungo delle frasi. Una poesia si riconosce a prima vista dalla lunghezza dei versi, che, in tutte le lingue, di regola non supera le 10 sillabe. Esse sono lette in circa tre secondi, che è il tempo medio dei meccanismi della coscienza per distinguere due percezioni: in quello spazio di tempo il cervello può concentrarsi solo un evento. Questo darebbe alla lettura della poesia la possibilità di coinvolgere i meccanismi dell'affettività in maniera più intensa di altre esperienze. La rima fu introdotta nella cultura europea dal padre della Chiesa Tertulliano, originario di Cartagine, nel II secolo d.C. e da monaci irlandesi che l'importarono dall'Egitto nell'VIII secolo. I latini la consideravano un vocalizzo infantile. La somiglianza acustica della rima sottolinea quella semantica, che conferisce al l'ultima parola dei versi una forza quasi magica. Infine, il senso della poesia per la vita è evidente a chi la legge e la ama: in analogia alla musica, l'animo esprime con la poesia quel che con il linguaggio della razionalità non gli riuscirebbe. L'intensità dei centri dell'affettività in quelle circostanze ne è la conferma.
Questi sono esempi del modo in cui gli autori discutono il rapporto cervello-poesia, elaborando un vasto materiale letterario e utilizzando ampiamente e con criterio le neuroscienze cognitive. Il libro non aiuta ad amare e a capire la poesia. Per capirla e amarla non serve chiudersi in laboratorio. Kant, con profondità insuperabile, diceva che l'arte (e quindi la poesia) ci introduce nel gioco di una realtà trasformata. Il libro spiega che ciò avviene in virtù di reti nervose diverse da quelle del l'esperienza comune. Esse sono emerse nel corso dell'evoluzione per il valore che la poesia e l'arte hanno nella vita.

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