G. De Chirico, Il poeta e il pittore, 1975 |
Nel primo secolo avanti Cristo, quando scrisse una delle sue massime più intriganti - Ut pictura poesis, la poesia è come la pittura -, il poeta latino Orazio non poteva immaginare che quelle sue parole avrebbero costituito, venti secoli dopo, la base per una discussione ancora aperta sul rapporto specifico tra poesia e arti visive e, più in generale, tra linguaggi verbali e comunicazione mediatica.
Ciò che voleva dire Orazio era in un certo senso condivisibile anche dagli uomini della sua epoca, giacché un buon poeta riesce a dare concretezza alle cose attraverso quell'astrazione verbale che dalle cose è apparentemente distante, così come un buon pittore può esprimere con i suoi mezzi quell'aura concettuale che sembra più connaturata alle qualità della parola.
Tra poesia e arti visive, almeno nella tradizione occidentale, rimane sempre, e comunque, un certo distacco drammatico che, tra una pennellata e l'altra, porterà Michelangelo a scaricare le tensioni della Sistina scrivendo i suoi sonetti a margine di abbozzi e disegni.
Certo, anche nell'antichità non pochi poeti avevano gettato ponti tra scrittura e pittura, componendo i loro versi secondo la sagoma dell'oggetto descritto a parole. Sono fin troppo citate, a questo proposito, la Siringa di Teocrito (a forma di zampogna) o la Scure di Simmia da Rodi, dimenticando il ben più suggestivo Altare di Dosiade o il Nido di rondine attribuito a un non meglio identificato Bizantino Rodio.
Saranno gli incunaboli di quelli che, nel Novecento, Guillaume Apollinaire chiamerà Calligrammi, «la via più breve», secondo il poeta, «per costringere l'occhio a una visione globale della parola scritta».
Non è su queste faglie «avanguardistiche», d'altra parte, che sarà misurato nei secoli il rapporto di affinità tra la poesia e la pittura; quanto su un più prevedibile accostamento del testo visivo al testo verbale come illustrazione o commento. Se si guarda la Divina Commedia di Gustave Doré, per esempio, è fin troppo evidente che da un lato la parola (quella di Dante) domina sovrana, mentre dall'altro c'è un cameriere più o meno geniale che con le sue tavole cerca di dare corpo ai versi del sommo poeta. In ogni caso, tutto si svolge su piani separati: sul primo il verbo creatore, sul secondo l'immagine servile che fa appello a tutti gli strumenti della retorica per compiacere la parola regina.
Solo in rare occasioni i conti tornano: come avviene, un caso fra tutti, per il Dürer dell'Apocalisse di San Giovanni, dove la mano del grande tedesco non fatica più di tanto a tener testa alla forza visionaria dell'Apostolo.
E, d'altro canto, anche davanti a prove così potenti, non verrà mai meno il pregiudizio del Foscolo, secondo cui soltanto il poeta è dotato di immaginazione creativa, mentre il pittore o lo scultore dovranno accontentarsi di una capacità imitativa che al massimo consente loro di copiare il mondo, mai di crearlo. Come dire che il Giudizio michelangiolesco è condannato a non raggiungere le vette o gli abissi dell'Inferno dantesco. Sciocchezze umanistiche, ma sciocchezze.
Senonché tra Otto e Novecento - con la rivoluzione semiologica del cinema e dei fumetti, e via via degli altri media, dove i codici della comunicazione si fondono e si confondono - accade ciò che nessuno aveva previsto: si comincia a intravedere una debolezza della parola là dove un tempo se ne contemplava la presunzione e l'arroganza. Anche i poeti sono chiamati a dubitare del loro strumento privilegiato, che è appunto il verbum, la sostanza del dire e del vivere.
La reazione sarà molteplice e varia. Alcuni, come il Mallarmé di Un coup de dés, useranno la pagina esattamente come il pittore usa la tela: una superficie bianca trafitta da parole dislocate con criteri rigorosamente spaziali. Altri, come Marinetti e i suoi futuristi, aggiungeranno alle parole macchie e onomatopee leggibili in tutte le lingue, un po' come le forme e le linee dei quadri che non hanno bisogno di traduzione. Altri ancora (e siamo alla poesia visiva di Ketty La Rocca, Miccini o Kolar) porteranno il loro dubbio fino alle estreme conseguenze, rinvigorendo la parola con altri segni estratti dall'universo della comunicazione mediatica, come fotografie, grafici e caratteri di giornale, con l'intento di rifondare per questa via la tecnica dadaista del collage.
Non si tratta, tuttavia, di un percorso a senso unico. Se è vero, infatti, che i pittori più legati alla tradizione si fanno a loro volta un po' poeti, decorando con scritte spesso inutili i loro sgargiantissimi quadri, è non meno vero che i poeti con vocazione più schiettamente innovativa ripartiranno dalla pagina mallarmeana o dalla tela imbiancata di Piero Manzoni, mentre gli artisti concettuali di più stretta osservanza, come il gruppo inglese di Art & Language, costruiranno le loro opere principalmente con le parole, abolendo tutto ciò che sa di pittura.
È in questa ottica che va esaminato il cammino di un poeta-cineasta come Cocteau e, soprattutto, di un poeta eretico come Pasolini, il quale, pur restando fedele alle terzine delle Ceneri di Gramsci - forse per odio verso le neoavanguardie -, alla fine scavalcherà il tanto detestato Sanguineti per consegnarsi al cinema. Indubbiamente la più visiva di tutte le arti, grazie alla quale, Dreyer e Pasolini permettendo, non si sa mai dove finisce la parola e dove comincia l'immagine.
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