A. Torno, Epigramma, ovvero l'antenato di Twitter
«Corriere della sera», 20 giugno 2012
Un autore latino del primo secolo della nostra era, conoscitore di uomini, sapido oltre che puntuto, a volte osceno comunque sempre sincero, ha scritto: «Avrai sempre soltanto ciò che avrai donato» («Quas dederis solas semper habebis opes»). Era il celebre Marziale. La citazione è tratta dal quinto libro dei suoi Epigrammi.
Cos'è un epigramma? Qualcuno potrebbe rispondervi: un'iscrizione. In greco, d'altra parte, significa proprio questo. Altri gradirebbe aggiungere: all'inizio aveva un carattere funebre, in seguito si trasformò in un carme di argomento vario. Un terzo interlocutore dirà che il tempo lo aiutò a conquistarsi una sua libertà, tanto da diventare, incalzato dall'ispirazione, persino qualcosa di fuggevole. Racchiudeva nella sua sintesi un amore, una dedica, oppure celebrava un evento. Diventò un genere quasi senza accorgersi, grazie a poeti e politici, storici e osservatori dei costumi.
Oggi è possibile ripensarlo, seguirne la storia, scrutarne l'influenza nelle diverse epoche grazie a un'opera di Pierre Laurens, professore emerito alla Sorbona. Ha scritto L'Abeille dans l'ambre, ovvero L'Ape nell'ambra, un magnifico saggio che esamina appunto l'avventura dell'epigramma in un arco di tempo che va dall'epoca alessandrina alla fine del Rinascimento (Les Belles Lettres, pp. 720, 59). Un lavoro monumentale che ebbe una prima edizione nel 1989 e ora è stato rivisto, aggiornato, arricchito di nuovi capitoli, registrando ultime scoperte e ulteriori discussioni. Un libro uscito dalla penna di uno studioso che ha lavorato a lungo su autori quali Petrarca, Marsilio Ficino o Gracian, che conosce come pochi la poesia latina della Rinascenza (ne ha curato una raccolta in 2 volumi da Brill, a Leida, nel 1975). Da lui tradotto e annotato, tra l'altro, è appena uscito il X libro dell'Antologia Palatina nella collezione greca delle Belles Lettres.
Laurens parte dalle pietre e giunge ai libri, indaga i rapporti tra l'epigramma e l'idillio o tra questo genere e i testi delle commedie antiche. Si muove con la disinvoltura del conoscitore capillare, esaminando una letteratura vastissima. Tiene conto delle tecniche dei retori, ma si sofferma anche su Platone o Seneca, sulla «pantera profumata», allegoria indicante la poesia (questa fiera si credeva avesse la bocca olezzante, tanto da lasciare una scia dei suoi spostamenti). Una parte la dedica agli aspetti iconografici, tra i quali si ritrova l'epigramma che si evolve con illustri personaggi del XVI secolo: Giulio Cesare Scaligero, Teodoro di Beza, Andrea Alciati con gli Emblemata. E troppi altri del capitolo «Picta poesis», dove si riflette sulla «poesia muta»; così almeno Leonardo chiamava la pittura.
L'epigramma diventa in queste pagine specchio di epoche, generi, dimensioni; anche i filosofi ne furono contaminati e aiutarono a scriverne la storia accanto a personaggi che il tempo ha scolorito. Il saggio di Laurens riporta alla luce un mondo che qualcuno crede esiliato sulle lapidi o perso nei versi. Ma più che una storia nel senso tradizionale del termine, il libro restituisce le riflessioni che si sono accumulate sull'epigramma, ne coglie le arguzie, si chiede come possa scaturire dalle poche parole di cui è fatto - la caratteristica più evidente - quella forza comunicativa che conserva nel tempo. Si ricerca, insomma, il segreto di questo micro poema del quale «la forma è la brevità e l'anima è l'acutezza» (Scaligero).
Che senso ha oggi una simile indagine? L'epoca che studia Laurens, in cui si distinguevano l'epigramma semplice dei Greci e di Catullo o quello doppio di Marziale, ha lasciato al presente le forme del genere, non i desideri creativi né i riferimenti estetici. La nostra sensibilità corre altrove e, a volte, scimmiottiamo la grazia di Simonide o le emozioni degli alessandrini - Nosside, Leonida di Taranto, Filippo di Tessalonica, Meleagro di Gadara e altri da cercare nell'Antologia Palatina - affidando messaggi alla Rete per comunicare in fretta. Non abbiamo l'ambizione di ricreare la dolce violenza amorosa di Catullo, né le geniali espressioni retoriche di Marziale, ma gli sms dei telefonini o Twitter, con il limite dei 140 caratteri, sono il surrogato che la sorte ci assegna. Accontentiamoci di questi nostri lacerti.
Oggi è possibile ripensarlo, seguirne la storia, scrutarne l'influenza nelle diverse epoche grazie a un'opera di Pierre Laurens, professore emerito alla Sorbona. Ha scritto L'Abeille dans l'ambre, ovvero L'Ape nell'ambra, un magnifico saggio che esamina appunto l'avventura dell'epigramma in un arco di tempo che va dall'epoca alessandrina alla fine del Rinascimento (Les Belles Lettres, pp. 720, 59). Un lavoro monumentale che ebbe una prima edizione nel 1989 e ora è stato rivisto, aggiornato, arricchito di nuovi capitoli, registrando ultime scoperte e ulteriori discussioni. Un libro uscito dalla penna di uno studioso che ha lavorato a lungo su autori quali Petrarca, Marsilio Ficino o Gracian, che conosce come pochi la poesia latina della Rinascenza (ne ha curato una raccolta in 2 volumi da Brill, a Leida, nel 1975). Da lui tradotto e annotato, tra l'altro, è appena uscito il X libro dell'Antologia Palatina nella collezione greca delle Belles Lettres.
Laurens parte dalle pietre e giunge ai libri, indaga i rapporti tra l'epigramma e l'idillio o tra questo genere e i testi delle commedie antiche. Si muove con la disinvoltura del conoscitore capillare, esaminando una letteratura vastissima. Tiene conto delle tecniche dei retori, ma si sofferma anche su Platone o Seneca, sulla «pantera profumata», allegoria indicante la poesia (questa fiera si credeva avesse la bocca olezzante, tanto da lasciare una scia dei suoi spostamenti). Una parte la dedica agli aspetti iconografici, tra i quali si ritrova l'epigramma che si evolve con illustri personaggi del XVI secolo: Giulio Cesare Scaligero, Teodoro di Beza, Andrea Alciati con gli Emblemata. E troppi altri del capitolo «Picta poesis», dove si riflette sulla «poesia muta»; così almeno Leonardo chiamava la pittura.
L'epigramma diventa in queste pagine specchio di epoche, generi, dimensioni; anche i filosofi ne furono contaminati e aiutarono a scriverne la storia accanto a personaggi che il tempo ha scolorito. Il saggio di Laurens riporta alla luce un mondo che qualcuno crede esiliato sulle lapidi o perso nei versi. Ma più che una storia nel senso tradizionale del termine, il libro restituisce le riflessioni che si sono accumulate sull'epigramma, ne coglie le arguzie, si chiede come possa scaturire dalle poche parole di cui è fatto - la caratteristica più evidente - quella forza comunicativa che conserva nel tempo. Si ricerca, insomma, il segreto di questo micro poema del quale «la forma è la brevità e l'anima è l'acutezza» (Scaligero).
Che senso ha oggi una simile indagine? L'epoca che studia Laurens, in cui si distinguevano l'epigramma semplice dei Greci e di Catullo o quello doppio di Marziale, ha lasciato al presente le forme del genere, non i desideri creativi né i riferimenti estetici. La nostra sensibilità corre altrove e, a volte, scimmiottiamo la grazia di Simonide o le emozioni degli alessandrini - Nosside, Leonida di Taranto, Filippo di Tessalonica, Meleagro di Gadara e altri da cercare nell'Antologia Palatina - affidando messaggi alla Rete per comunicare in fretta. Non abbiamo l'ambizione di ricreare la dolce violenza amorosa di Catullo, né le geniali espressioni retoriche di Marziale, ma gli sms dei telefonini o Twitter, con il limite dei 140 caratteri, sono il surrogato che la sorte ci assegna. Accontentiamoci di questi nostri lacerti.
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