giovedì 12 luglio 2012

Thomas Mann e i cent'anni della «Morte a Venezia»



Simpatia per l'abisso di Paola Capriolo, "La Lettura",  26 febbraio 2012

Nel 1912, quando Thomas Mann pubblicò La morte a Venezia, l'Europa sembrava il più pacifico e ordinato dei continenti; difficile supporre che l'avventura potesse trovarvi spazio se non in quella forma attenuata detta «turismo» alla quale, allora come oggi, gli agiati figli della civiltà industriale ricorrevano per trovare un diversivo dalla rassicurante normalità della propria esistenza. Per la verità Gustav von Aschenbach, l'illustre e attempato scrittore che vediamo sbarcare da una gondola su un pontile del Lido, aveva concepito ben altro desiderio: preso da un'oscura brama di oblio e liberazione, avrebbe voluto spingersi addirittura là dove sono le tigri, dove le felci crescono rigogliose, dove i grevi vapori delle paludi rammentano all'anima un passato più che ancestrale. Ma come tanti, ha finito con l'accontentarsi di una versione addomesticata del suo sogno: non proprio fino alle tigri, meglio ripiegare su una meta più vicina, raggiungibile in una notte di vagone letto, per godersi tre o quattro settimane di riposo in qualche rinomata località di villeggiatura. Con un misto di ragionevolezza e inconscia temerarietà sceglie dunque Venezia, la città «metà fiaba, metà trappola per forestieri»; e sceglie di alloggiare all'Hotel des Bains, uno dei numerosi grandi alberghi disseminati per il continente, nelle cui sale comuni tutte le lingue parlate nel mondo civile si mescolano in un educato chiacchierio.
Gli alberghi, come i sanatori di lusso che ne costituiscono un ambiguo equivalente, sembrano esercitare una particolare seduzione su Thomas Mann: forse perché sono luoghi astratti, nei quali è dato di condurre una vita astratta che è il primo ed essenziale presupposto di ogni avventura. Qui davvero le abitudini quotidiane (e le relazioni, e i doveri, e quella sobria e inflessibile dedizione al proprio compito inculcata come il più tenace degli imperativi in chi, come Aschenbach, aspira nella vita al decoro borghese e nell'opera a un'esemplare classicità) sono temporaneamente sospesi come da un colpo di bacchetta magica per lasciare il posto a una serie di rituali lievi e provvisori, a un vuoto appena mascherato dal sommesso andirivieni dei camerieri. E in questo vuoto, tutto può fare irruzione: anche l'incomparabile, il «fiabescamente diverso». Ad esempio si può scorgere a un tratto nella hall, in una cerchia di insignificanti ragazzine radunate con l'istitutrice attorno a un tavolino di vimini, un efebo leggiadro dall'impronunciabile nome polacco che sarà Giacinto e Narciso e infine Ermes, il messaggero delle ombre, colui che guida l'anima dell'uomo nel suo viaggio verso gli inferi. Perché il delirio amoroso in cui Aschenbach è destinato a sprofondare pagina dopo pagina mentre vaga per le calli di Venezia sulle orme del giovane Tadzio è quello di un letterato imbevuto di cultura classica, che tenta sino all'ultimo di nascondere a se stesso il proprio smarrimento trasfigurandolo in un gioco inesausto di citazioni. Una «deformazione professionale», che però rispecchia e anticipa l'incombente catastrofe di un'Europa il cui estenuato umanesimo arriverà a capovolgersi, entro pochi decenni, nella più brutale disumanità.
È come se Mann avesse presentito tutto questo già qui, con le sue doti, oltre che di grande scrittore, di grande rabdomante della storia: le stesse che, sempre nel 1912, gli ispirano La montagna incantata, inizialmente pensata come racconto ma destinata a svilupparsi ben oltre il progetto originario e a diventare uno dei romanzi fondamentali del ventesimo secolo. Concepite quasi a ridosso l'una dell'altra, le due opere affrontano un tema comune, quella «simpatia per l'abisso» alla quale Aschenbach finisce col soccombere, mentre Hans Castorp, nella scena culminante della Montagna incantata, deciderà di rinnegarla «in nome della bontà e dell'amore». Ma la differenza più profonda è forse un'altra: se il romanzo, nella sua arcata poderosa, sembra voler accogliere e trasfigurare i travagli spirituali di un'intera epoca, nella Morte a Venezia tutto ciò appare come di scorcio, riflesso nel nitido, inesorabile sviluppo dell'ossessione erotica che va soggiogando a poco a poco la mente del protagonista. Non si parla di «idee», in questo racconto perfetto; non vi sono agguerriti portavoce di tesi filosofiche che si contendano l'anima di Aschenbach come Naphta e Settembrini quella del giovane Castorp; tutto avviene nel lungo, chiuso monologo interiore di una coscienza che si affanna a tradurre quanto le sta accadendo nell'ambiguo repertorio di immagini del mito greco, senza rendersi conto che il mito è Apollo ma anche Dioniso, la limpidezza della forma ma anche la voragine tentatrice dell'informe, del primitivo, addirittura del ferino: come quella di Tadzio sulla spiaggia del Lido, le sue figure emergono dalla «nebulosa infinità» di un elemento che nessuna ragione sarà mai in grado di padroneggiare.
Per una reticenza significativa in un autore che, come Mann, fa della reticenza uno dei propri fondamentali mezzi stilistici, nonostante la dovizia di citazioni mitologiche Dioniso non è mai nominato esplicitamente nel racconto: vi si allude soltanto come al «dio straniero», invocato da un'ebbra folla di celebranti nel sogno dove Aschenbach, giunto a sua volta al culmine di un'ebbrezza che mescola inestricabilmente eros e morte, arriva a scorgere il fondamento oscuro e primordiale delle proprie dotte divagazioni. Quella benefica, feconda dialettica tra il patrono del limite e il dio dell'abbandono orgiastico teorizzata da Nietzsche nella Nascita della tragedia, quell'equilibrio tra forma e dismisura, è sul punto di spezzarsi irrevocabilmente. E mentre il vecchio scrittore si accascia esanime su un fianco della poltrona in attesa che «un mondo rispettosamente commosso» apprenda la notizia della sua morte, Tadzio, continua a inoltrarsi nell'«immensità colma di promesse» dell'orizzonte marino, eternamente sfuggente, incurante dell'equivoco per cui noi mortali abbiamo creduto di poter imbrigliare il suo passo nelle maglie effimere delle nostre culture.

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