lunedì 16 luglio 2012

La sfida di Babele

S. Luzzatto, Il moderno ha un'anima di ferro, "Il  Sole 24 ore", 3 luglio 2011

R. Delaunay, Tour Eiffel
L'una è una statua, l'altra è una torre. L'una sta a New York, l'altra sta a Parigi. L'una simboleggia la freedom americana, l'altra la grandeur francese. A parte il fatto che entrambe risultano sovradimensionate nel loro genere e che entrambe risalgono al secondo Ottocento, a prima vista davvero non si riconosce che cosa mai la Statua della Libertà e la Tour Eiffel possano avere in comune. Di sicuro lo ignorano milioni di visitatori che ogni anno, da un lato o dall'altro dell'oceano, rendono visita a due icone fra le più gettonate della nostra modernità. E che per visitarle sino in fondo, devono entrarci dentro: salendole poi dall'interno – a piedi o in ascensore – per conquistarsi il panorama dalla cima.

La chiave del segreto, l'anello che storicamente tiene uniti il simbolo di Parigi e quello di New York, consiste proprio nella loro struttura interna. Ben visibile nella Tour Eiffel, nascosta dalla superficie di rame nella Statua della Libertà, l'intelaiatura di entrambe è costituita da una trama di ferro forgiato in maniera tale da sostenere l'edificio e insieme da permettere la salita del pubblico. Così, totalmente diverse nell'aspetto, la Statua della Libertà e la Tour Eiffel condividono l'anima. E condividono il nome dell'ingegnere il quale – poco prima di progettare la «Tour en fer de trois cents mètres» voluta dalla città di Parigi per l'Esposizione universale del 1889 – aveva trovato il modo di far stare in piedi la statua inaugurata a New York nel 1886. Era un cinquantenne francese di origini tedesche, Gustave Bönickhausen, che si faceva chiamare Gustave Eiffel.
Parigi, la statua della Libertà in costruzione
Lo ha spiegato bene Francesca Viano in un libro pubblicato recentemente da Laterza, La statua della libertà. Una storia globale: il gigantesco monumento – 93 metri di altezza, 225 tonnellate di peso – offerto dai francesi agli americani per celebrare il centenario dell'Indipendenza aveva il problema strutturale di dover resistere alle sollecitazioni cui Miss Liberty sarebbe stata sottoposta dal vento della baia e dalle escursioni termiche. Lo sapeva il progettista, lo scultore alsaziano Auguste Bartholdi, che perciò si era rivolto a Eiffel, il maggiore costruttore al mondo di ponti ferroviari in ferro. Detto fatto: l'intelaiatura della Statua della Libertà era stata concepita esattamente come il pilone di un ponte ferroviario, del quale vertiginosi calcoli matematici avevano definito sia la capacità di resistenza sia i margini di oscillazione.
Francesca Viano ha ricostruito l'intera storia di una statua immaginata da Bartholdi per essere posta, in Oriente, all'ingresso del nuovo canale di Suez, e divenuta il simbolo di un Occidente che riconosceva New York come nuova capitale. Inizialmente, la Statua della Libertà doveva chiamarsi L'Egitto che illumina l'Asia e doveva svolgere sul mar Rosso la funzione di un faro colossale. Oltreché alle antiche astrattezze dell'orientalismo, il progetto di Bartholdi corrispondeva dunque a un'idea funzionale, utilitaristica. Ma i finanziatori francesi della statua, politici e imprenditori risoluti, avevano poi convertito il progetto in qualcosa di assai diverso: nella baia di New York, la Libertà che illumina il mondo si sarebbe resa utile in ben altro modo che un faro. Non per la sua funzione pratica, ma per il fatto di non averne alcuna. Per la forza straordinaria della sua inutilità.
Approvato nel 1886, l'anno stesso di inaugurazione della Statua della Libertà, anche il progetto della Tour Eiffel prevedeva un faro sulla cima: non certo per orientare i piloti dei bateaux-mouches lungo la Senna, piuttosto per simboleggiare – in competizione proprio con gli Stati Uniti d'America, superpotenza del futuro – la grandezza di una Francia che cent'anni dopo la Rivoluzione continuava a valere da faro del mondo. D'altronde, in vista dell'Esposizione universale del 1889, c'era chi aveva proposto di rendere omaggio al centenario della Rivoluzione costruendo una gigantesca ghigliottina... Ennesimo piccolo indizio a sostegno della tesi di Walter Benjamin: la capacità del sistema capitalistico di trasformare perfino le rivoluzioni in mode, e tutte le mode in svendite.
È uscito ora un libro dell'americana Jill Jonnes, Storia della Tour Eiffel, che conferma l'esattezza della tesi benjaminiana. Di fatto, poche vicende dimostrano meglio di questa come suonasse via via più inattuale la domanda che molti critici francesi ripeterono senza posa durante i due anni scarsi – appena ventidue mesi! – necessari alla costruzione dell'immensa struttura in ferro forgiato. «A che cosa serve la Tour Eiffel?», chiedevano impazienti tali critici (sempre meglio di coloro i quali, speculando a fini antisemiti sulle origini tedesche di Gustave Eiffel, parlavano sprezzantemente della «torre giudaica» come del «disonore di Parigi»). La verità è che la Tour Eiffel, al pari della Statua della Libertà, non serviva a nulla. E che precisamente questa inutilità – la suprema gratuità del gadget – le prometteva un radioso futuro.
Naturalmente, sarebbe ingiusto sottovalutare quanto il successo della Tour Eiffel dipendesse dal suo intrinseco valore, sia ingegneristico che architettonico. All'inaugurazione, il 1° aprile 1889, la maggior parte dei critici d'arte dovettero riconoscere come Gustave Eiffel avesse realizzato non soltanto un exploit tecnico, ma un capolavoro di grazia. Eppure il lettore odierno resta soprattutto colpito dall'abilità di Eiffel nell'allestire intorno alla torre una campagna di marketing, e dalla disponibilità dei consumatori della Belle Époque a vivere la costruzione come un evento commerciale. Sin dall'inizio del cantiere Eiffel affidò a un fotografo di vaglia, Édouard Durandelle, qualcosa come l'esclusiva nella rappresentazione dei lavori in corso. E già prima che l'opera fosse compiuta, un merchandising spontaneo trasformò la Tour Eiffel in una manna per i venditori di souvenir.


Su carta, su tela, su legno; a matita, a pastello, a olio; in fotografia, in litografia, in avorio, in porcellana, in acciaio, in zinco, in cioccolato, in marzapane; sui fazzoletti, sui berretti, sulle tabacchiere, sugli ombrelli; appesa alle catenelle degli orologi da panciotto o alle orecchie delle signore: nella Parigi del 1889 la Tour Eiffel finì per essere ovunque, oltreché troneggiare enorme sulla spianata dello Champ de Mars. Secondo la denuncia di un disgustato Guy de Maupassant, «non solamente la si vedeva dappertutto, ma la si trovava dappertutto, fatta di tutti i materiali conosciuti, esposta in tutte le vetrine, incubo inevitabile e straziante».

Durante l'anno dell'Esposizione universale salirono sulla Tour Eiffel due milioni di persone. Al giorno d'oggi ne salgono, ogni anno, circa sei milioni. E nessuno più ricorda che Gustave Eiffel, pur di vincere le resistenze di chi non voleva costruirla affatto, si era impegnato a smontarla entro vent'anni dall'inaugurazione, nel 1909. Nessuno trova da ridire sul gadget più grande e più bello del mondo.



Jill Jones, Storia della Tour Eiffel, trad. di C. Spinoglio, Donzelli, Roma, pagg. 346, 2011
Francesca Viano, La statua della libertà. Una storia globale, Laterza, Bari, pagg. 464, 2011

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