Giulio Paolini, Mimesis |
Carlo Ossola, La letteratura che ci detta dentro, "Il Sole 24 Ore", 6 maggio 2012
La storia umana è un grande fiume di oblio: a che varrebbe conservare gli scontrini di acquisto dei tanti calzini usati, i biglietti dei tram, i ritagli della cronaca, già dimenticati la settimana dopo? Che cos'è la storia se non una narrazione "sopra" questi immensi detriti, dettagli, in cui si sono spesi opere e giorni? Che rimane dei singoli segni del progresso: dove la prima ruota, il primo carattere di piombo che con l'invenzione della stampa fece avanzare conoscenza e uguaglianza, ove la prima spoletta meccanica per i moderni telai, la prima mongolfiera? Nulla ci rimane di quei mitici oggetti: ma qui, eccola vivace e autentica, l'ode Al signor di Montgolfier, il «volator naviglio» di Vincenzo Monti. E come parlerete ai vostri figli degli idoli musicali delle vostre serate in discoteca, se in vent'anni sono spariti prima i dischi, poi le cassette, e tra poco i cd? Fortunata quella generazione che avrà letto Vittorio Sereni e – quando nulla tornerà più di quelle musiche – potrà ancora leggere Giovanna e i Beatles: «Nel mutismo domestico nella quiete / pensandosi inascoltata e sola / ridà fiato a quei redivivi. / Lungo una striscia di polvere lasciando / dietro sé schegge di suono / tra pareti stupefatte se ne vanno / in uno sfrigolio / i beneamati Scarafaggi».
Oggi che il mondo ci viene in casa, sulla mensa, con le pere del Cile, i pompelmi del Sud Africa, il thé di Ceylon, il riso dell'India; e negli occhi lo schermo televisivo ci porta stragi e cicloni, guerre e fame di ogni continente, quale storia potrebbe farne racconto? Quale manuale raccogliere l'accumulo di oggetti, di immagini e di sgomento, che ci viene dal mondo intero?
La letteratura non è spiegata dalla storia, al contrario la raccoglie, la rappresenta, la restituisce all'universo: «Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo» (Italo Calvino). La scuola, i libri, non debbono, non possono, tradire questo universo, che ci fa tutti uomini, e uguali, tutti in viaggio, senza sosta, senza frontiera: «Va / lui, dimentico della sua andatura, / perduto nelle sue creature» (Mario Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini).
Oggi siamo divenuti cittadini di un'Europa di incerti confini: e se in futuro saranno nostri concittadini gli esuli della sponda sud del Mediterraneo, come dividerci allora dai paesi magrebini ove nacque il "nostro" Sant'Agostino, come separarci dalla vecchia Russia, che ci ha nutriti di Tolstoj e di Dostoevskij, di Pasternak e di Bulgakov?
Per questo, per questa coscienza di una «geografia della memoria e del possibile» infinitamente più vasta della vicenda che muove la nostra vita ordinaria di corpi soggetti a una strada, a una città, a questo e quel vincolo, la storia dovrebbe soltanto essere storia universale: tutto ciò «che ci tocca» parla ormai in altra lingua. Ma il compito che rimane è trasformare la recente globalità infelice in un progetto universale: cioè, alla lettera, in una direzione accessibile a tutta l'umanità.
Consci che un altro vincolo antico si è dissolto: nel XIX secolo, nel nome del progresso, materia e spirito, leggi della natura e moti della coscienza umana si raccoglievano nel fatale incedere della scienza. La fisica del XX secolo ha messo in forse la nozione stessa di materia, di tempo, di spazio, e dunque di storia lineare. In una bellissima Parabola, uno dei teorici della struttura atomica ondulatoria (e poi della fisica quantistica), Erwin Schrödinger (1887-1961), volse in poesia quel sistema: «Azioni, desideri e pensieri, / credimi, non significano più / delle casuali oscillazioni dell'ago / nello strumento quando con esso / tentiamo di sondare la natura: / non sono che urti tra molecole. / Non è l'assurdo tremolìo della luce / che ti consente di intuire la legge. / Non la tua esaltazione e non la paura / sono il senso di questa vita. / Soltanto lo spirito universale, una volta all'opera, / potrà, fra mille tentativi, / registrare alla fine un risultato. / Ma ci riguarderà ancora?»
Erst der weltgeist, solo lo spirito universale: ma esso è già qui, nei mondi ricreati dalla poesia, nelle Città invisibili di Calvino, nella Nuova Guinea di Pasolini, e ben prima nell'universo intero evocato, alle origini della letteratura italiana, nel Cantico delle creature di San Francesco, nei continenti attraversati dal Marco Polo.
Il canone dei classici attesta questo sguardo all'infinito, nel privilegio che sola ha la letteratura italiana di aver sempre offerto versioni di mondi possibili, configurabili, irraggiungibili: da Dante all'Ariosto, dal Tasso a Galileo, da Leopardi a Pirandello, da Pasolini a Calvino, il quale ultimo – nei suoi Six memos for the next millennium (tracce per il millennio che s'è inaugurato) – dopo aver con finezza ed intelligenza illustrato Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, insoddisfatto di quell'esito aveva aggiunto – senza poterlo compiere per l'improvvisa morte – Consistency: «consistenza, costanza, coerenza».
La letteratura infine offre la più difficile delle competenze, che nessun manuale sa racchiudere in formule: la competenza su di sé. A che vale saper di calcolo e di ponti, di molecole e di infezioni, se non sappiamo neppure entrare in noi, sceverare nella nostra coscienza, liberarci dalle nostre cecità? Studiare i classici non è un lusso, non è uno spreco e neppure una gratuità: è avere a nostra disposizione ciò che di più libero l'uomo ha pensato di se stesso: a ogni gesto vano, il sorriso di Marc'Aurelio e di Seneca ci ferma; a ogni pretesa di sapere, Montaigne e Pascal ci richiamano al nostro atomo; a ogni superbo mito del sé, Baudelaire e Calvino alludono al «cielo di pietra» che portiamo in noi.
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