venerdì 13 luglio 2012

Cibo e letteratura



Carlo Carena, Scorpacciate d'autore, "Il Sole 24 Ore", 8 aprile 2012
Quello che Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi ci offrono in Banchetti letterari è un menu a più mani di una cinquantina di cibi e bevande disposti in ordine alfabetico e illustrati con riferimenti e passaggi di scienziati, poeti, romanzieri dall'antichità al più enciclopedico dei gastronomi novecenteschi, Carlo Emilio Gadda, e a propaggini nel Duemila. 
Si comincia con «Acqua» e si conclude con «Zucchero», si parla di leccornie e di fame, di banchetti divini e di cibi di guerra. Di bere e di mangiare a tavola soli o in compagnia, e delle pagine narrative e poetiche che hanno ispirato, cólte o popolari. Quasi quante l'amore. Almeno fino ai giorni nostri, quando l'ideale longilineo e le prescrizioni mediche cominciano a insidiare l'appagamento del gusto e dello stomaco e le invenzioni del banchetto di Trimalcione e del paese di Cuccagna.
Le donne allo yogurt, come le definiva Piero Camporesi, gettano nella costernazione quelle altre che amava e descriveva Agnolo Firenzuola «di gamba lunga, scarsetta nelle parti a basso, ma con le polpe grosse quanto bisogna e ovate quanto si richiede», nutrite dai dietologi di allora con vivande «grasse e dolci» e vini «negri e maturi». Anche il conte Giulio Landi tessendo nella Formaggiata del 1542 le lodi del formaggio, avversato e schifato da altri (De casei nequitia di Giovanni P. Lotichio, 1643), tesse le lodi delle sue mungitrici come ben in gambe «a pennello fatte e con lor ben massicce, ben composte e dure mele». Ma tant'è. 
Anche questo libro si trova a dover dare come prima voce «Abbuffata». Il primo inno a bengodi è del lirico greco Ipponatte di Efeso (sec. VI) in questa parodia pantagruelica: «Cantami, o Musa di Eurimedonte, / il gorgo oceanico trita vivande / che senza misura divora…». Quindi si passa con un salto di venti secoli alle qualità di pasta elencate dal Garzoni nella sua Piazza universale al capitolo sui Cuochi, scalchi, guatari, credenzieri, trincianti, bottiglieri eccetera: «gnocchi, macheroni, lasagne, tagliatelle, vermicelli, sfogliate, tortelli, tortelletti, ritortelli, truffoli, ravioli, casatelli, morselli, offelle, fiadoni, fiadoncelli, frittelle, frittellone» eccetera. Ma proprio queste pastasciutte, «assurda religione gastronomica italiana», ripugnavano a Marinetti, in cerca di cibi freschi e scattanti, «aerovivande tattili con rumori ed odori, ultravirili e pollofiat» (nei menu futuristi non compaiono mai termini stranieri. Il cocktail è una polibibita, il bar quisibeve, e sandwich traidue). La mensa futurista è un'armonia di cibi, di profumi e persino di colori, pomodoro rosso, polenta gialla, insalata verde, ravanelli vermigli e rose bianche coi relativi rami spinosi. Armonie mirate a evocare certe sensazioni e a determinare certi stati d'animo. Che è poi l'esito più nobile per l'uomo a tavola.
Pitagora non permetteva ai suoi nemmeno le fave, legume immondo nella sua stessa figura e nei suoi germogli; per non dire della carne. Grande intuizione, che introduce tra le portate sulla mensa la metafora. E dunque i monaci – i pitagorici erano ben anch'essi monaci – secondo il verdetto della Vita sobria di Alvise Cornaro (1558) si rovinano la salute con le loro minestre di legumi e le insalate, frutti e torte di uova, e anche carne, anziché imitare i Padri antichi nel deserto che camparono lungamente sani, allegri e contenti con solo radici e frutti selvatici e bevendo acqua pura. 
Viceversa per un vero intenditore, l'autore del Res rustica Lucio Giunio Moderato Columella, le fave, le lenticchie, i piselli, i fagioli e ceci, il sesamo, il lino, l'orzo sono gustosissimi e nutrienti. D'Annunzio se ne incantava nelle Novelle della Pescara: «I piatti dei legumi novelli fumavano, e il cibo frugale dispariva rapidamente entro gli stomachi dei faticatori». 
E a fine pranzo? Francesco Redi nel tardo Seicento rimuove il sorbetto e il rosolio: «I sorbetti, ancorché ambrati, / e mille altre acque odorose, / son bevande da svogliati / e da femmine leziose». Non così Carlo Gozzi: «Oh amabile sorbetto /nettare prezioso delicato / benedetto colui che t'ha inventato. / Due cose in questo mondo / mertano il primo onore: | il sorbetto gelato e il caldo amore». Oppure un caffè? Ancora no dal Redi: «Beverei prima il veleno /che un bicchier che fosse pieno / dell'amaro e reo caffè». Ma sì dal Parini: «onora i tuoi labbri con la nettarea bevanda dove abbronzato / arde e fumica il grano a te d'Aleppo giunto / o da Moca». È dall'epoca del Genesi, osservano Anselmi e Ruozzi nella loro introduzione, dalla tentazione e dalla perdizione della mela che intorno al cibo e alle sue forme si giuoca una partita decisiva, non solo in letteratura ma, più duramente, nelle forme e nelle vicissitudini delle civiltà. La letteratura, al suo solito, le rispecchia e le racconta. 
Quindi a volte nel segno della gioia godereccia, altre volte in quello della fatica e della sua assenza; negli estremi della sorte stessa degli uomini, la gran cena 

Banchetti letterari, a cura di Gian Maria Anselmi e Gino Ruozzi, Carocci, Roma, pagg. 412

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