domenica 15 luglio 2012

Bonnefoy traduce Leopardi

Silvia, te souviens-tu?, di Yves Bonnefoy, "Il Sole 24 Ore", 17 luglio 2011
“Silvia, te souviens-tu 
de ton temps sur la terre? La beauté 
illuminait tes yeux qui n’auront eu,
rieurs, qu'une journée,
et toi, tu gravissais, joyeuse, pensive,
le seuil, o jeune fille, de ta vie"...

Manoscritto del canto A Silvia, Biblioteca Nazionale di Napoli
Leopardi è grande poeta perché ha compreso, con un'intensità speciale, che la poesia è affidarsi all'intelligenza delle parole. Aveva vissuto in mezzo a esse, le parole – le parole e non ciò ch'esse nominano – dalla più tenera infanzia. La vasta biblioteca paterna l'aveva affascinato, sin dalla prima età, con le sue migliaia di libri, realtà altra, essa ancora immensa e insondabile, che presto l'avrebbe accolto nel proprio seno e trattenuto, come lettore dapprima, come autore ben presto, quasi subito.
Testi classici capitali in edizioni numerose, sovente in diverse lingue, dizionari di ogni sorta, trattati talvolta solo in parte comprensibili, saggi di filosofia, di teologia, abbandonati sulle piagge dello spirito come tante conchiglie vuote sulle dune del mare aperto. Le parole brillavano di brusìi, da ogni parte, intorno a Giacomo bambino, adolescente, chino sul suo tavolo di lavoro, davanti a una finestra che s'apriva sulle voci e gli echi del borgo. Con essi dimorava, e diveniva – nel loro ripetersi senza posa – ciò ch'egli fu sì grandiosamente: un pensatore, un testimone della storia universale.
Ma un poeta, in che consiste? Dal fondo di quale memoria risale, sotto gli strati sovrapposti del discorso analitico, ciò ch'egli risente repentinamente com'acqua sorgiva? Benché egli fosse già in potenza l'autore erudito e laborioso dello Zibaldone, il quale avrebbe messo a frutto i rivoli di parole della grande biblioteca, Giacomo ascoltava, non meno, le parole che ad altra finestra della via pronunciava o cantava una fanciulla, ed era allora un tendere l'orecchio a vocaboli impregnati dagli avvenimenti di una giornata di villaggio o del cielo notturno. E la sera, al calar del giorno, s'affacciava spesso a quella sorta di promontorio dietro la casa di famiglia ch'egli evoca nell'Infinito, e di là lo sguardo si posava sulle siepi, i boschi, i ruscelli e i prati che, di collina in collina, divallavano in lontananza sino all'orizzonte del mare. ... La parola "luna" colmava i suoi occhi, la parola "mare" "illimitava" il suo sguardo. E sono parole senza definizione, nomi proprii più che parole, tanto essi si confondevano con realtà avvolte nella loro evidenza. Nomi senza passato nella storia della filosofia, senza viluppi nella storia delle religioni: semplici rappresentanti, e silenti, di un mondo ch'essi si offrivano di raccogliere per coloro che volessero, di essi, fare il loro pane e il loro vino, da compartire con qualche vicino nello spirito.
Ci sono parole per la scienza, e ci sono parole per la poesia. Ce ne sono per tentar di comprendere gli avvenimenti della storia umana, le tensioni della società, le stranezze del pensiero attraverso i secoli, i dibattiti dell'ora presente. E ci sono parole che si raccolgono in poesia, cariche di sogni, è vero, ma portate dal desiderio di essere, per lo spirito umano, quell'orizzonte della Sera del dì di festa ove «dolce e chiara è la notte e senza vento». E Leopardi è colui – tra i poeti italiani – che ha meglio compreso che a ogni istante due vie s'aprono nel cuore della parola; e che la poesia si decide a questo bivio: essa deve lasciare la grande biblioteca, andare sino allo sprone che s'inoltra tra cielo e terra, e continuare ancora, più lontano, declinando verso appuntamenti dello sguardo ove s'accoglie ancora il calore appena mitigato della notte d'estate.
Prestiamo dunque attenzione con Leopardi a queste grandi parole della terra. ... Prestiamo attenzione a quelle parole: è la poesia stessa, e si abbia riconoscenza a questo grande poeta di averle riconosciute, designate, riunite nei propri versi che sono, in tal modo, come un universo che prende forma sotto i nostri occhi. ... E che importa allora, dal punto di vista della creazione poetica, se colui che è pur privato di ogni reale condivisione è tuttavia un essere che ama, che sa ricondurre su ogni cosa ed essere – nel profondo del desiderio e dell'intenzione – l'affetto che avrebbe potuto limitare a una persona soltanto o a un luogo? Leopardi fu uno spirito generoso, capace di amare senza provare il bisogno di possedere, e il sentimento di compassione che sorgeva allora in lui, inquieto e disilluso e capace dunque di comprendere ogni disillusione e di farsi prossimo di ogni tristezza, gli permise d'infrangere la propria solitudine; e di avanzare parlando semplicemente al cuore di ciascuno e di tutti nella società, nell'intimo della loro condizione. Parole che carezzavano le loro gioie e che distillavano il loro dolore.
Queste sono le parole che hanno dato vita A Silvia, un canto che mostra a qual punto l'autore sa attingere a ciò che non ha posseduto, e condividere con colei che ebbe appena a intravedere qualcosa di essenziale, l'esperienza acuta della precarietà della vita e quella, non meno, dei piaceri semplici che la vita pur mortale conosce, quand'essa sappia preservare in sé la limpidità di sguardo sugli anni d'infanzia. «Ridenti e fuggitivi»: come meglio percepire che attraverso queste parole di mistero, negli occhi di una fanciulla «lieta e pensosa», l'essenza stessa del nostro essere al mondo? Come meglio rivolgersi a essa, essere accanto a essa? Come meglio farne fiorire la bellezza, che presto morte rapirà?
***
«Ridenti e fuggitivi»! In queste parole, nella luce che da esse emana, è tutt'intera la difficoltà di tradurre Leopardi.


Se tradurre la poesia è restituire in un'altra lingua non solo i significati chiari o latenti entro un testo, ma anche questa «vita delle parole» che nell'Infinito accede alle cose stesse del mondo che ci circonda per ravvivarne l'evidenza e dispiegarne i sensi, ben sguarniti si sarà allora nel passaggio da un vocabolario all'altro. Occorre restare accosto alle parole, far dimora in esse, per ascoltarle vivere nella poesia. Ma le parole del francese non hanno lo stesso modo di vivere che quelle dell'italiano nei Canti. Non hanno – come "montagna" o "mare" o "silenzio" o "immensità" – quella ricchezza sonora che è pari a quella del mondo sensibile. E non hanno quell'accento tonico che avvia le parole della "bella lingua" a farsi musica verbale prossima – così nei primi versi della Sera del dì di festa – alla linea stessa dell'orizzonte. Il suono della parola francese è, ben più, "cosa mentale" che percezione direttamente e pienamente sensoriale. ... E la nostra attestazione poetica del luogo terrestre sarà dunque compito più difficile, occorreranno tutte le risorse della scrittura, tutta la sua libertà di manovra, e tutte le relazioni consce o inconsce ch'essa stabilisce tra le parole ch'adopra e le immagini che ne fa sorgere.
Quando si traduce, si deve far conto di queste parole francesi più avvertite, mi sembra, del pensiero che delle cose, e ciò rende difficile, particolarmente difficile, la trasposizione del Leopardi. Là ove l'italiano è concreto, nei suoi versi, e rimane nel respiro della vita, in francese v'è un passaggio all'idea, un distrarsi dall'ascolto verso gli orli della significazione; e questo rischia di sostituire alla designazione diretta e piena d'evidenza del luogo terrestre una formulazione che si direbbe piatta. «Toujours chère me fut cette colline solitaire»: tradurre così il celebre "sempre caro", è senz'aura. Non si sarà preservato il rilievo presente della collina, della siepe, del mare in lontananza, che offrono le parole dell'Infinito. E tale è anche la ragione, direi, della mancanza d'attenzione e dell'incomprensione della quale il Leopardi, questo poeta eminente della modernità, è stato vittima, così a lungo, in terra di Francia, pur così attenta – e in ogni modo dopo Baudelaire – al divenire della sensibilità poetica.
... Ho dunque tradotto A Silvia. Non ho certo immaginato di poter tentare di ricreare nella mia lingua la bellezza infinita, e infinitamente italiana, di versi come: «Sonavan le quiete / Stanze, e le vie dintorno, / Al tuo perpetuo canto», versi che neanche paiono di «lingua mortal». E soprattutto mi affascinava l'inizio del canto, questo quasi ossimoro, sorprendente, degli «occhi ridenti e fuggitivi» della fanciulla «lieta e pensosa». Se la poesia è intraducibile, lo è appunto in tali momenti. E non pretendo aver fatto intendere tutta quella musica. ... E forse, dopo tutto, è così che bisogna tradurre, con l'oscura coscienza cioè che in ogni traduzione non si è che se stessi, nel nostro proprio giorno; e che questa transitorietà avvolge tuttavia una testimonianza. Per quanto insufficiente sia la traduzione, e attraverso questa stessa insufficienza che la rivela cosa mortale, essa ha dato forma a un desiderio, rivelato un affetto, designato il poeta che meritava questa profonda fedeltà. Non è poco. Se solo avessi fatto intendere che amo Leopardi, che la sua opera più che da ammirare è da amare, questo potrebbe bastarmi.

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