domenica 8 luglio 2012

Nomadismi


Donald Sassoon, Naturalmente nomadi, “Il Sole 24 Ore”, 25 marzo 2012
George Duby, Atlante storico, SEI, Torino, 1992
Popoli in movimento da che mondo è mondo. Circa 60mila anni fa i nostri diretti antenati, Homo sapiens, lasciarono l'Africa iniziando così il nostro lungo viaggio verso la colonizzazione del pianeta. Non sappiamo perché. Era per spirito di avventura, ambizione di conquista, desiderio di vedere il mondo? Sono andati perché erano forti, disposti a cercare una vita migliore, cibo più abbondante? Oppure furono cacciati via da altri ominidi con i quali lottavano per spartirsi scarse risorse? O furono costretti ad andare via a causa di ostili condizioni ambientali?
Sono emigrati perché erano forti e potevano andarsene? O perché erano deboli e sono stati costretti?
I nostri antenati, che siano stati profughi, o conquistatori, o "migranti economici", risalirono la Valle del Nilo, attraversarono il Sinai e di là si diressero verso il Levante. Oppure, secondo un'altra ipotesi, attraversarono lo stretto di Bab el Mandeb (la "Porta del dolore") che separa il Corno d'Africa dall'Arabia. Erano in pochi e per lasciare l'Africa ci vollero 200 anni. La storia delle migrazioni spesso presenta due alternative. Gli emigranti sono a volte rappresentati come appartenenti alla parte più avventurosa della popolazione, quelli disposti a correre rischi. E questo spiegherebbe il dinamismo della società a forte immigrazione come gli Stati Uniti. In alternativa, gli emigranti sono i "losers", i perdenti, i dannati, come recitano le famose righe incise sulla Statua della Libertà scritte dalla poetessa Emma Lazarus: «Mandatemi le vostre povere ed esauste masse accalcate bramanti di libertà, i miseri rifiuti delle vostre coste brulicanti; mandatemi chi non ha dimora, squassato dalle tempeste... Pochi avrebbero lasciato case e campi se la vita fosse stata felice e rosea». Quello che i viaggiatori incontrano quando arrivano a destinazione è importante tanto quanto le cause della partenza. Arrivano in spazi disabitati o dove gli abitanti sono tecnologicamente inferiori e possono essere dominati, asserviti, spazzati via? Oppure arrivano dove c'è già una società evoluta e complessa e dove i nuovi arrivati sono costretti a iniziare la loro nuova vita dal basso? C'è una grande differenza tra arrivare in America come pionieri conquistatori, o come schiavi, o come poveri immigrati.
Sia come sia, i nostri antenati africani, nel corso dei successivi 30mila anni occuparono quasi tutto il nostro pianeta. All'origine dell'umanità c'è una "diaspora", una parola greca che significa Dispersione. La sua ideologia è il cosmopolitismo, un'altra parola greca: da cosmo (Universo) e la polis, la città. I nostri antenati erano cittadini del mondo, come siamo noi quando ci ricordiamo chi eravamo e non ciò che riteniamo di essere.
Nessun altro animale a noi prossimo (e cioè un mammifero) ha avuto tale straordinaria esperienza di dispersione. Non vi erano tigri in Africa, o cavalli in America, né mammiferi più grandi del lama in America Latina e nessuno in Nuova Zelanda. Solo gli uccelli, gli insetti e pesci sono stati diasporici come noi. Certo, abbiamo notevoli vantaggi rispetto agli altri animali, soprattutto possediamo capacità di usare il linguaggio. Non il pseudo-linguaggio animalesco, con le sue grida d'allarme, di dolore, o di piacere, ma un sofisticato sistema di comunicazione che ci ha consentito di conservare informazioni e il genere di storie che ci danno un senso di identità e di trasmettere tutto ciò ai nostri figli. Paradossalmente la lingua, come si è evoluta in vari modi, si è rivelata essere anche di essere una formidabile barriera tra di noi facilitando il formarsi di identità distinte. I nostri esploratori incontrarono "indigeni" che, come noi, erano stati essi stessi in movimento. Quando Cristoforo Colombo arrivò in quella che lui chiamò Hispaniola (l'isola che ora è divisa tra Haiti e Repubblica Dominicana) incontrò i Taino (un ramo del popolo Arawak). Ma loro stessi non erano stati abitanti dell'isola da secoli, come Colombo pensava. Erano arrivati di recente essendo stati cacciati da un'isola all'altra da altri Arawak (come noi furono forse cacciati dall'Africa). I Taino non erano un piccolo pugno di selvaggi, ma un popolo di, forse, due milioni di persone in grado di costruire canoe in grado di trasportare 100 persone. Non molto è rimasto di loro, tranne alcune parole che si usano ovunque: canoua, hamaca, tobago, batata. Per fortuna non ci si muove sempre. Quando gli uomini si fermarono e diventano sedentari inventano l'agricoltura, la divisione del lavoro, e svilupparono una cultura più complessa. Con l'agricoltura e l'invenzione della città emerge un nuovo tipo di migranti: i coloni. Essi si muovono per trovare un luogo dove mettere radici, come se un desiderio contradittorio animasse il loro cuore: stabilirsi una volta per sempre, finalmente soddisfatti, ma anche la voglia di andare altrove, nella speranza che ci sia qualcosa di meglio dietro l'angolo. 
Questi sono gli elementi che scandiscono la traiettoria dell'umanità: lo scontro costante tra conservatorismo e progresso, tra tradizione e modernità. Non sono questi i sentimenti che condividiamo con i nostri lontani antenati? Gli Europei, o meglio, i popoli del Mediterraneo sono stati colonizzatori, ma hanno dovuto affrontare popoli stranieri. Li abbiamo chiamati barbari. I nostri libri di scuola erano pieni di riferimenti alle invasioni barbariche. Barbaro è una parola greca, Barbaros, inizialmente utilizzata contro i Persiani. I Barbaros erano l'opposto dei cittadini della polis, e parlavano in quello che per i Greci era una lingua strana, in modo onomatopeico suonava come un balbettio incoerente: bar-bar-bar. La parola tedesca per le invasioni barbariche è meno insultante: Völkerwanderung (migrazione dei popoli), il che non dovrebbe sorprendere dal momento che molti Barbaros provenivano da quella che poi fu chiamata Germania. Questi "barbari tedeschi" erano quelli che furono fermati da Giulio Cesare e le cui storie sono state narrate da Tacito. Come al solito i vincitori scrivono la storia adoperando termini diversi da quelli che perdono.

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