Esce in Germania il film sulla filosofa tedesca,
autrice del celebre libro “La banalità del male”
Andrea Tarquini
"La Repubblica", 30 gennaio 2013
Con Wim Wenders, Werner Herzog, Margarethe von Trotta e tanti altri il grande cinema tedesco ci stupì e ci incantò dagli anni Sessanta a prima della caduta del Muro. Ora il film made in Germany torna a una sfida importante con Margarethe von Trotta e il suo Hannah Arendt, in uscita in Germania. Il film è dedicato alla grande filosofa, storica e scrittrice tedesca emigrata negli States, ma non racconta tutta la sua biografia, bensì un momento decisivo della sua carriera. Quello in cui Hannah Arendt fu testimone e cronista d’eccezione a Gerusalemme, al processo per crimini contro l’umanità ad Adolf Eichmann, l’ingegnere dell’Olocausto. Lei che studiò a fondo la genesi di ogni totalitarismo, e provocò e irritò la sinistra comparando il nazionalsocialismo al socialismo reale staliniano, allora fece ancora un altro balzo in avanti: raccontò e poi descrisse in celebre libro la “banalità del male”.
«Molta gente a sinistra allora la schivò, la evitò, perché lei pronunciò verità scomode, già nel 1951 nel suo libro sul totalitarismo paragonò i crimini nazisti con quelli del comunismo sovietico, e a noi di sinistra ciò suonava sospetto», dice Margarethe von Trotta nella recente, bellissima intervista a due voci che ha concesso a Marie Luise Knott e Christiane Peitz del quotidiano liberal berlinese Der Tagesspiegel, insieme a Barbara Sukowa, l’attrice tedesco-americana di origini polacche. «Ancora oggi», continua von Trotta, «ci sono persone che rifiutano il pensiero di Hannah Arendt perché analizzò entrambi i totalitarismi».
Il processo ad Adolf Eichmann, ricordiamolo, fu uno dei più grandi eventi mediatici del dopoguerra. L’ingegnere che eseguì con precisione industriale assoluta l’ordine hitleriano della «soluzione finale del problema ebraico», si era nascosto in Argentina. Nel 1960 un commando dell’intelligence israeliano, giunto a Buenos Aires con falsi contratti da tecnici edili a bordo di un DC4 con falsa matricola civile, lo sequestrò e lo portò in Israele. Al processo, le cui riprese restano memorabili (e in alcune parti compaiono anche nel film della von Trotta), Eichmann ammise, da freddo ingegnere privo d’emozioni, ogni colpa descrivendo qualsiasi minimo dettaglio, da come dovevano funzionare i forni alla quantità di gas Zyklone-B usata ogni volta. Fu condannato a morte e impiccato.
Hannah Arendt scrisse per i media americani il grande resoconto del processo e ora il cinema riporta agli occhi delle giovani generazioni tedesche quella memoria terribile che per fortuna viene insegnata loro ogni giorno a scuola. Un ruolo difficile da interpretare per la protagonista del film. «Se devo affrontare una parte», dice Barbara Sukowa, «non mi pongo troppe domande, ma ho letto il copione senza sapere molto di Hannah Arendt, poi informandomi mi sono stupita di quanto tempo dedicava al teatro, ai concerti, agli amici». Piccola difficoltà: Barbara Sukowa non fumatrice ha dovuto imparare ad avere una sigaretta in mano a ogni scena, perché «Hannah Arendt senza sigaretta non è realistica».
Margarethe von Trotta ha studiato a lungo ogni dettaglio di Hannah Arendt, ogni video o filmato disponibile su di lei o su sue interviste. «La sua intervista alla tv pubblica con Guenter Gaus» racconta la regista «mi colpì sulle prime per la sua apparente arroganza, ma poi capii che quello era anche il suo charme, tra sorrisi e senso dell’umorismo». Il film sulla Arendt si inserisce in una ideale trilogia cinematografica che von Trotta ha dedicato ad altrettante figure femminili decisive nella storia tedesca, tutte peraltro interpretate da Barbara Sukowa: da Rosa Luxemburg nel film del 1986 alla mistica Hildegard von Bingen in Vision del 2009. La regista spiega di aver studiato a lungo la storia di Hannah, prima di decidere la prospettiva dalla quale raccontarla. «Non mi convinceva fare un film generico sulla sua fuga in Francia dal nazismo, sulla prigionia nel Lager, sull’esilio in America. Volevamo dedicare la pellicola al suo pensiero, per far riflettere gli spettatori, come se il film fosse tratto dai suoi appunti, per questo ci siamo concentrati sulla sua resa dei conti con la storia, al processo contro Adolf Eichmann; come ogni eroe positivo, anche Hannah Arendt ha bisogno nella narrazione filmica di un antieroe».
Il film è preciso in ogni particolare, notano von Trotta e Barbara Sukowa. Dai momenti in cui l’allora direttore del New Yorker, Wiliam Shawn, aspettava nervoso il testo del reportage di Hannah sul processo ad Eichmann divorando le matite, fino ai dettagli più minuti: «Hannah Arendt non era una donna grigia vestita di grigio come molti la ricordano » nota Barbara Sukowa, «usava sempre il rossetto, e indossava una collana di perle o un braccialetto prezioso, e vestiva sempre con gonna e pullover, non amava i jeans».