domenica 27 gennaio 2013

E Marinetti ricreò Venezia


Mario Andrea Rigoni

"Corriere della Sera", 27 gennaio 2013

In un romanzo inedito il suo odio-amore per la città 
Nella clamorosa protesta di Marinetti e dei futuristi contro il passato e, in generale, contro ogni romanticismo sentimentale, era naturale che Venezia, la Venere equorea, la «città anadiomene» del Fuoco di Gabriele d'Annunzio, il «sesso femminile dell'Europa» secondo Apollinaire, diventasse per la sua stessa singolarità un bersaglio privilegiato, come risulta da due noti proclami del 1910: Contro Venezia passatista e Discorso futurista di Marinetti ai veneziani. «Noi ripudiamo l'antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico. Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell'imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite, cloaca massima del passatismo» si legge nel primo di questi due testi, scritto da Marinetti insieme con i pittori Boccioni, Carrà e Russolo. 
Meno noto è che in una Venezia rinascimentale sia ambientato già un giovanile dramma storico scritto da Marinetti in francese; che il tema della distruzione e della riedificazione di Venezia compaia in una pièce comica, situabile tra gli anni Venti e Trenta, intitolata  Ricostruire l'Italia con architettura futurista Sant'Elia; infine che la città costituisca il soggetto di un «aeroromanzo» o «aeropoema» adesso meritoriamente recuperato e pubblicato per la prima volta con un esauriente commento di Patrizio Ceccagnoli e Paolo Valesio (Filippo Tommaso Marinetti, Venezianella e Studentaccio, Mondadori).
La data di composizione, che si situa tra il 1943 e il 1944, ossia nell'ultimo anno di vita dello scrittore, se da un lato lascia pensare a un frutto fuori stagione, dall'altro testimonia la persistenza di un «sogno nostalgico», la fedeltà a un fantasma senza dubbio rianimata dal soggiorno nella città lagunare dove, fuggendo da Roma, Marinetti aveva trovato rifugio dai bombardamenti. 
La drammatica cornice della guerra civile traspare per brevi accenni, ma non forma il contenuto né condiziona il tono del romanzo improntato a uno spirito fondamentalmente giocoso, come suggeriscono già i nomi, tra l'affettuoso e il canzonatorio, dei protagonisti. Studentaccio, accompagnato da un deuteragonista che si chiama Negrone, incarna l'ilare e ribelle spirito futurista. Giovane universitario reduce ferito dal fronte africano, egli insegue, innamorato, una crocerossina inafferrabile e introvabile, sorta di metamorfosi futurista di un'Angelica ariostesca sempre in fuga o di una leopardiana «donna che non si trova». Venezianella è nello stesso tempo un ente allegorico, il vago modello scultoreo e architettonico della costruzione di una «Nuova Venezia», che peraltro si sovrappone senza sostituirsi alla Vecchia, tramite un prevalente ricorso alla materia e all'arte del vetro. L'opera è contrastata, ma non impedita, sia dall'opposizione di Oscurantino (altro nome parlante) sia dall'eroicomico assedio di un ribollente esercito di pantegane. 
Questi e altri aspetti dell'incerta ed esile trama affiorano da una prosa che, avendo sovvertito la sintassi e abolito la punteggiatura non meno di quanto scompagini la logica in omaggio ai principi futuristici, rasenta e spesso travalica il limite dell'ordinaria leggibilità. Ed è ironico che nel calcolato delirio di un'«immaginazione senza fili», ma nutrita di tutte le risorse della cultura e di tutti gli artifici della retorica (giochi di parole, neologismi, prosopopee, inserti in francese e in dialetto veneziano, ecc.), l'autore rivendichi la parte di un'educata sobrietà, in contrasto con la moda del monologo interiore di Dujardin, Proust e Joyce (nel capitolo felicemente intitolato «Sedurre l'assoluto»): «Al troppo grossolano raccogliticcio minestrone letterario e artistico del subcosciente senza scelta né cura né analisi preferisco una bella trota rosea allessata e condita con crudo olio d'oliva e sugo di limone siciliano».
Ha ragione Paolo Valesio di sostenere, nella sua ricca introduzione, che Venezianella e Studentaccio sia «uno dei pochissimi romanzi veramente sperimentali nella storia della narrativa italiana moderna»: l'invenzione linguistica ne è forse il lato più interessante. È anche vero tuttavia che, sul piano poetico, il romanzo sembra vivere, oltre che per una certa temperie ironica e grottesca, soltanto per singoli sprazzi lirici (ora realistici, ora fiabeschi, ora surreali) che erompono da un sottofondo narrativo di eccessiva arbitrarietà.
Anche l'«ossessione lirica della materia», plausibilissimo principio dell'estetica futurista, resta più una mira che un risultato. Esso, indubbiamente, viene talvolta raggiunto, come nell'evocazione dei «gradini erbosi» della casa di Studentaccio che, in un lampo di fantascienza, «liquidandosi sognano di diventare prato» oppure nella descrizione estrosa e divertita, fitta di allitterazioni e di rime, dello «scafodolce», l'imbarcazione dei due protagonisti che alle foci del Po «centuplica i suoi sbuffanti furori di motori e come un attore di ventura e teatraccio provinciale si aggancia nel naso due berniniani mustacci di soldataccio ubriaco».

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