sabato 26 gennaio 2013

Dove sono tutti?

I
l mistero delle galassie da cui nessuno si fa vivo

Le possibili risposte a un quesito nato con Fermi

John D. Barrow

"La Repubblica",  25 gennaio 2013

Quasi ogni settimana le agenzie stampa del mondo intero riferiscono la scoperta di nuovi pianeti orbitanti attorno a stelle lontane. Queste scoperte sono diventate così comuni da fare notizia soltanto se riguardo a esse c’è qualcosa di speciale. Il satellite Kepler della Nasa conquista i titoli in prima pagina perché è impegnato per lo più nella ricerca di pianeti abitabili: ciò significa pianeti piccoli e solidi come la Terra, che orbitino a una distanza media dalla loro stella tale da consentire alle temperature al suolo di restare miti e permettere all’acqua di rimanere liquida su buona parte della loro superficie. Se un pianeta è troppo grande, allora come Giove sarà formato da idrogeno gassoso o liquido. Se si avvicina troppo alla sua stella, la sua superficie diventerà troppo calda perché vi siano acqua e connesse forme di vita, come il lato rovente di Mercurio. Se orbita troppo lontano dalla propria stella, invece, allora l’acqua — qualora fosse presente — sarebbe eternamente ghiacciata. Meglio ancora: l’ideale sarebbe scoprire pianeti che si spostano lungo orbite praticamente circolari attorno alla loro stella, così da non subire sbalzi sostanziali di temperatura su base annua. Kepler può scoprire pianeti dall’orbita giusta misurando i loro periodi di rivoluzione attorno alla rispettiva stella. Poco alla volta, dopo alcuni anni di missione, sta iniziando a individuare pianeti che hanno dimensioni ridotte quali quelle della Terra e periodi di rivoluzione assai simili alla lunghezza del nostro anno.
La Missione Kepler è la prima missione spaziale in grado di identificare molti pianeti simili alla Terra intorno ad altre stelle. Fino a questo momento ha scoperto 2.740 pianeti candidati, e ha eseguito controlli e accertamenti dettagliati, giungendo alla conferma che 105 di essi sono effettivamente pianeti. Se a questo numero aggiungiamo quello appurato da altre ricerche, sappiamo che esistono 467 pianeti noti che orbitano attorno ad altre stelle. La frequenza con la quale Kepler individua nuovi candidati dotati di tali requisiti lascia intuire che almeno una stella su sei ha un pianeta abitabile e la metà di tutte le stelle ha un pianeta delle dimensioni della Terra. Estrapolando questo dato e applicando l’indice di frequenza delle scoperte all’intera nostra galassia della Via Lattea si arriva all’ipotesi che essa possa contenere 17 miliardi di pianeti simili alla Terra. E poi resterebbero da prendere in considerazione anche gli altri cento miliardi di galassie.
La grande quantità di pianeti interessanti che almeno in teoria potrebbero ospitare la vita ci spinge ancora una volta a riflettere sulla domanda che formulò per primo il grande fisico italiano Enrico Fermi nel 1950: se l’universo è così pieno di luoghi che possono ospitare la vita, e se la vita trova sempre un modo per evolversi, «dove sono tutti quanti?». Finora non abbiamo individuato alcun segnale proveniente da extraterrestri. Non abbiamo trovato prove di una vita consapevole da nessuna parte nell’Universo. Silenzio totale.
C’è tutta una serie di risposte che potremmo riuscire a dare alla domanda di Fermi. Quei “tutti quanti” potrebbero esistere ma non rivelarsi, forse perché noi siamo a tal punto interessanti da essere stati messi al riparo da qualsiasi tipo di interferenza così che possano studiare la nostra evoluzione. D’altra parte, potremmo anche essere troppo noiosi: se la nostra evoluzione e il nostro sviluppo sono tipici di ciò che accade in un numero incalcolabile di altri posti dell’Universo, non ci sarebbe tentativo alcuno di contattarci perché saremmo interessanti quanto può esserlo una nuova specie di coleotteri.
Un’altra possibilità è che siamo troppo ingenui: probabilmente sarebbe assai poco saggio manifestare la propria presenza quando forze ostili potrebbero considerarti una preda o una potenziale minaccia. In realtà, questo grande silenzio galattico potrebbe stare a segnalare una paranoia in crescendo sul silenzio. Se non si colgono segnali si pensa sempre che debba esistere una ragione per la quale gli altri non stanno emettendo segnali. Inviare segnali è forse pericoloso? Anche se si ignora quale sia il pericolo, è più sicuro starsene zitti.
È anche possibile che noi si sia molto più evoluti rispetto alle altre civiltà extraterrestri, al punto che nessuna di queste forse ha sviluppato la tecnologia necessaria a inviare un segnale. In effetti, noi stessi non avremmo potuto farlo un secolo fa. Quindi, siamo troppo evoluti. È anche possibile, tuttavia, che noi si sia troppo arretrati. Se esiste un Club Galattico d’élite, formato da civiltà parecchio più avanzate, può anche darsi che esistano alcuni requisiti di ammissione per farne parte. Potrebbe essere solo questione di tempo prima di scoprirlo: l’importante sarebbe sopravvivere allo sviluppo di tecnologie pericolose sufficientemente a lungo da dimostrare di aver sviluppato anche il sapere e la saggezza necessari a convincere il Club Galattico che permetterci di farne parte è sicuro. In alternativa, può anche darsi che l’ammissione al Club diventi possibile soltanto quando si è messo a punto un sistema di tecnologia delle comunicazioni molto più avanzato rispetto a quelli che abbiamo noi oggi. E soltanto allora saremo in grado di captare qualche segnale. Anche in questo caso, potrebbe essere necessario avere la capacità di sopravvivere a lungo come civiltà evoluta.
Questa idea ci induce a chiederci se stiamo andando nella direzione giusta rispetto a ciò che significa essere una civiltà tecnologicamente avanzata. In genere, noi siamo propensi a ritenere che “più avanzati” significhi avere razzi più grandi, macchine più potenti e un maggiore controllo dell’ambiente. In realtà abbiamo appena iniziato a prendere atto del potere della miniaturizzazione. Le nanotecnologie possono produrre macchine su scala molecolare. Forse le sonde spaziali degli extraterrestri molto avanzati sono costituite da macchine molecolari che passano del tutto inosservate, ma che sono in grado di riprodursi dalla materia reperita nello spazio, semplici minuscoli computer. Il nostro problema è che pensiamo troppo in grande.
Ci siamo anche chiesti se non siamo forse noi troppo in anticipo, la prima civiltà in grado di mettere a punto la tecnologia necessaria a comunicare a distanze interstellari. In ogni caso, ciò ci impone di avere uno status molto speciale, cosa che Copernico ci convinse di evitare di assumere. Nondimeno, c’è anche la più modesta possibilità che noi siamo troppo in ritardo. Forse sono esistite moltitudini di civiltà tecnologicamente avanzate, che vissero però per breve tempo. Forze interne quali malattie, inquinamento, guerre nucleari, sovrappopolazione e cambiamento del clima sono inevitabili e in definitiva ineluttabili. Una volta sviluppate alcune tecnologie, una civiltà è destinata ad andare oltre il proprio ambiente locale. Anche le forze esterne sono scoraggianti: i pianeti corrono sistematicamente il rischio di essere colpiti da asteroidi e comete, di subire irradiazioni provocate da esplosioni di stelle e di supernove. Le tecnologie molto avanzate potrebbero essere in grado di proteggere i pianeti e le forme di vita che li abitano da queste calamità, ma finché non si raggiunge quel livello molto avanzato e a meno di essere disposti a pianificare con enorme anticipo, si è sempre vulnerabili e soggetti a essere periodicamente risospinti nel passato, o estinti addirittura come i dinosauri, da cataclismi che si verificano con preoccupante regolarità.

Traduzione Anna Bissanti.
J: Barrow è professore di scienze matematiche all’università di Cambridge e ha pubblicato Il libro degli universi (Mondadori)

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