Massimiliano Panarari
"La Stampa", 10 gennaio 2013
La tecnica rende sempre più labili i confini tra uomo e macchina
L'etnologo Marazzi propone un'antropologia delle creature artificiali
Da Frankenstein a Metropolis di Lang, ai malinconici androidi postmoderni di Blade Runner
Si può fare un'antropologia degli uomini artificiali, i cyborg e i robot? Ci prova - con risultati interessanti - un recentissimo libro dell'etnologo Antonio Marazzi dedicato a Uomini, cyborg e robot umanoidi (ed. Carocci, pp. 151), occupandosi da un'angolazione visuale speciale di un tema che da tempo circola all'interno della riflessione sul cosiddetto «postumano»; ovvero lo sgretolamento dei confini tra uomo e macchina, organismo vivente ed «entità» cibernetica, che gli sviluppi della scienza e la sempre maggiore capacità di intervento della tecnica sul corpo umano rendono sempre più marcato. Stiamo parlando di una questione che si sta delineando anche in termini morali (la roboetica) e giuridici (il diritto robotico) - discipline nelle quali eccelle, a livello internazionale, l'italiana Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa - ma che, soprattutto, investe la dimensione, assai complessa, della nostra natura di esseri umani. Giustappunto un affaire rilevante per l'antropologia che, in questo caso, si trova a fare i conti con la contemporaneità e con una delle novità più epocali (e più «sfidanti», dal suo punto di vista): la globalizzazione che tutto collega e, promuovendo le tecnologie della rete, ha permesso quell'abbassamento dei costi dell'energia di cui ha beneficiato la circolazione dei robot. Di sicuro una bella differenza rispetto all'etnologo intento a studiare tradizioni isolate e a farne risaltare le peculiarità e specificità rispetto alle altre culture. Se l'emergenza della «questione robotica» e il configurarsi di un'esigenza di antropologia dell'artificiale è quindi tipica di questi nostri decenni, si rivela invece già piuttosto lunga la storia degli umanoidi meccanizzati, che nacquero qualche secolo or sono come trastulli di regnanti e cortigiani. Dell'automa il primo «fin è la meraviglia»: e mentre quell'intelletto superiore (e non artificiale) di Leonardo da Vinci si applicava indefessamente alla progettazione di cavalli meccanici e altre macchine avveniristiche con finalità spesso belliche, cominciavano a vedersi gli automi ludici, come l'anatra capace di nutrirsi ed evacuare creata da Vaucusson, e le varie danzatrici arabe e bambole animate giapponesi e cinesi. Il contraltare agli Stati Uniti nel campo della robotica, non a caso, è proprio l'Oriente tecnologicamente avanzato di Giappone e Corea del Sud, in possesso di un patrimonio di conoscenze sugli automi che viene da lontano. E li dota, per così dire, di un'anima shintoista: sulla scorta di una cultura che, a differenza del cartesianesimo e del meccanicismo, non separa rigidamente, ma fonde dinamicamente uomo e natura, la robotica giapponese si inserisce in maniera armonica all'interno di una tradizione antica. Senza indulgere nell'eccesso di romanticismo di una visione per la quale gli automi potrebbero ospitare gli spiriti degli antenati - rispetto a cui Marazzi richiama il lettore all'ordine - resta il dato culturale di una robotica orientale che aggiorna i tratti dello shintoismo e li modernizza, indirizzandosi verso la costruzione di badanti per anziani, colleghi di lavoro destinati ad attività rischiose e devote assistenti personali. Mentre gli automi veri o presunti (la falsificazione era all'ordine del giorno in materia) muovevano così i loro primi faticosi passi, l'Occidente sperimentava le proprie più sfrenate fantasie intorno ai robot mediante la formula narrativa e cinematografica della letteratura gotica e della fantascienza, da Frankenstein agli «uomini-macchina» della Metropolis di Fritz Lang, sino ai malinconici androidi postmoderni di Blade Runner e agli individui soggetti a ogni innesto e protesi artificiale del cyberpunk. La science fiction va accuratamente distinta dalla scienza, ci ricorda l'autore (giustamente severo e rigoroso), anche se le sue intuizioni anticipatrici vanno senz'altro riconosciute. E allora si evitino contaminazioni indebite e gli studiosi di robotica non prestino alcun credito alle famose tre leggi di Isaac Asimov, ma neppure sopravvalutino il test elaborato da Alan Turing (raccontato da Tuono Pettinato e Francesca Riccioni nella graphic novel Enigma, Rizzoli) che dovrebbe rispondere al quesito se le macchine risultino capaci di pensare (cosa di cui il tormentatissimo e geniale matematico britannico era convinto). Mentre, alla fin fine, si devono fare i conti con il crescere della diffusione di un sentimento emotivo avvertito da utenti e proprietari nei confronti dei robot (con tanto di studi effettuati da psicologi del Far East che tendono a confermare come si riveli assai più facile nutrire affetto per un androide piuttosto che per un oggetto). E, soprattutto, ci si deve confrontare con i cosiddetti «transumanisti», che vaticinano la conversione de facto degli esseri umani in cyborg, in grado di vivere molto più a lungo in virtù degli interventi dell'ingegneria genetica e della scienza degli organi artificiali. Dietro c'è il desiderio di un'evoluzione non più naturale, ma partecipata e orientata, ovvero una riproposizione riveduta e corretta di un mito antico, quello dell'uomo demiurgo, che torna a bussare alla porta assumendo le sembianze dell'androide e servendosi della metafora del robot umanoide. Ma è giusto o è sbagliato? Si tratta di utopia, oppure di distopia? E così irrompono quelle domande etiche e di senso che l'antropologia finisce, necessariamente, per sollevare, tanto più quando, come in questo caso, la riflessione sull'artificialità equivale al passaggio da una visione passiva a una attiva nella concezione del nostro corpo. E, dunque, anche in quella della nostra, inaggirabile, condizione umana.
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