I grandi romanzi letti attraverso le epigrafi
Guido Vitiello
"Corriere della Sera", 15 gennaio 2013
«I libri si continuano l’un l’altro, a dispetto della nostra abitudine di giudicarli separatamente», osservò Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé. Sarebbe l’epigrafe perfetta per un libro sulle epigrafi, e infatti Rosemary Ahern, editor e agente letteraria americana, ha voluto metterla in testa a The Art of the Epigraph. How Great Books Begin (Atria Books). Un’antologia ordinata per temi e tipologie — la vita, l’amore, la follia, avvertimenti e lamentazioni, l’epigrafe esistenziale — che pesca capricciosamente tra le citazioni inaugurali di sette secoli di storia della letteratura. Sempre che abbia senso, in questo caso, parlare di storia: altra epigrafe adeguata sarebbe la frase di T. S. Eliot secondo cui tutta la letteratura, da Omero in poi, vive in un ordine simultaneo.
Si può pensare alla letteratura come a un salone affollato e risonante dove i libri conversano tra di loro, e mille bisbigli si rincorrono da un angolo all’altro echeggiandosi all’infinito. L’epigrafe è il biglietto da visita con cui un autore chiede di ammettere il proprio libro al salone, il gesto di cortesia con cui presenta il suo debuttante al gran ballo omaggiando gli ospiti arrivati prima di lui. Come tutti i gesti di cortesia non è obbligato, e Ahern ricorda che molti dei suoi scrittori più amati — Edith Wharton, Gustave Flaubert, la stessa Virginia Woolf — preferivano astenersene. The Art of the Epigraph celebra invece «la generosità degli autori desiderosi di sollevare il sipario per farci dare una sbirciata al loro arredo mentale». Il più munifico è senz’altro Herman Melville, se si pensa che Moby Dick si apre con un’ottantina di epigrafi sulle balene, presentate come estratti forniti da un vice-vice-bibliotecario. Altrettanto prodigo è Stendhal, e Il Rosso e il Nero conta anch’esso circa ottanta epigrafi, distribuite però ciascuna per capitolo. Molte sono inventate di sana pianta: tale era la passione di Stendhal per le citazioni d’effetto, che si divertiva ad attribuire frasi di suo gusto a fonti altisonanti o improbabili. Uno scherzo giocato al lettore? Piuttosto il riconoscimento di una verità elementare: tutte le epigrafi, una volta strappate al loro libro d’origine, appartengono al nuovo autore adottivo, che ne dispone come meglio crede. Ne consegue che tutte le epigrafi sono, in un certo senso, epigrafi inventate.
Le apparenze suggeriscono il contrario. L’epigrafe ha tutta l’aria di un omaggio reverente, è il riconoscimento di un’autorità, e dev’essere perciò largito con cautela. Il testo originario di La terra desolata era inaugurato da un passo di Cuore di tenebra. Ezra Pound scrisse a Eliot per sconsigliarlo: «Dubito che Conrad sia abbastanza importante da reggere la citazione», e alla fine il poeta scelse un brano sibillino del Satyricon di Petronio. Ma lo piegò ai suoi fini, perché la forma ossequiosa della citazione nasconde quasi sempre un atto di appropriazione violenta, un sequestro di parole. C’è da dubitare che la mistica Teresa d’Avila avrebbe approvato la curvatura che Preghiere esaudite, l’ultimo romanzo incompiuto di Truman Capote sul decadente jet set newyorkese, imprime a questa sua frase: «Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte».
Le due epigrafi scelte da Stephen King per il saggio On Writing: Autobiografia di un mestiere — «L’onestà è la miglior politica», Miguel de Cervantes; «I bugiardi prosperano», Anonimo — sono tutto sommato un buon viatico all’arte dell’epigrafe, dove non c’è bugia che non sia onesta e non c’è onestà che non sia bugiarda. A volte lo scrittore si sente così sovrano da inventare non solo la frase, ma anche l’autore e l’opera da cui proviene. L’epigrafe de Il terzo poliziotto, romanzo fantastico dell’irlandese Flann O’Brien, è tratta dall’opera di De Selby, immaginario scienziato e filosofo convinto che la Terra non sia né tonda né piatta ma a forma di salsiccia; e la sua citazione ne precede una di Shakespeare. Altre epigrafi, in apparenza più tradizionali, celano comunque un elemento di azzardo, perché solo un autore molto sicuro dei propri mezzi come Roberto Bolaño poteva aprire le mille pagine di 2666 con una formula di Baudelaire — «Un’oasi d’orrore in un deserto di noia» — che metterebbe in fuga il lettore meglio disposto.
Come tutte le antologie personali, The Art of the Epigraph deve molto ai gusti della sua curatrice, e quelli di Rosemary Ahern fanno sentire il loro peso più del dovuto: pochi dei suoi «great books» sono davvero «great» (ce n’è persino uno di Michael Moore) e la sovrabbondanza di autori americani contemporanei toglie profondità e respiro enciclopedico all’operazione. Ma c’è quel che basta per compilare una tassonomia delle epigrafi e costruirci intorno qualche piccola teoria.
Tutte le epigrafi, si è detto, appartengono al loro padre adottivo. Ma questo è vero solo per metà. Una volta ammesse al gran salone e accolte dalla nuova compagnia, è a essa che appartengono, e lo scrittore perde ogni potere sulle risonanze che susciteranno, sui dialoghi che intesseranno da un capo all’altro della storia. Le enigmatiche e magistrali epigrafi di Borges testimoniano questa felice abdicazione, la rassegnazione al fatto che i libri, una volta licenziati dall’autore, continuano a conversare amabilmente tra di loro, ed è bene non disturbarli.
Capita poi che gli echi di un’epigrafe striscino fuori dalle biblioteche e risuonino, umoristici o beffardi, nella vita reale. Mario Puzo scelse, per Il padrino, una frase di Balzac — «Dietro ogni grande fortuna c’è un crimine» — che è perfetta per l’epopea della fondazione di un impero mafioso. Ma bisogna ricordare che quando mise mano al suo romanzo aveva quarantacinque anni e ventimila dollari di debiti, e aveva appena deciso che era ora di scrivere qualcosa per far soldi. L’impresa gli andò fin troppo bene: prima ancora che Coppola ne facesse un film, il romanzo criminale di Puzo aveva venduto ventuno milioni di copie. Balzac, a ben pensarci, gli aveva fornito un’epigrafe profetica.
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