mercoledì 23 gennaio 2013

2013, l’anno del «Principe»


Un convegno a Roma sull’attualità dell’opera


Machiavelli scrisse nella seconda metà del 1513 questo libretto 
diventato un vademecum della politica più spregiudicata e ferina

Giulio Ferroni

"L’Unità",  23 gennaio 2013

L’ANNO DEL «PRINCIPE» (SCRITTO IN GRAN PARTE NELLA SECONDA METÀ DEL 1513), CHE SI ANNUNCIA FITTO DI INTERVENTI E CELEBRAZIONI, VIENE INAUGURATO DAL CONVEGNO «IL PENSIERO DELLA CRISI: NICCOLÒ MACHIAVELLI E IL “PRINCIPE”», CHE SI TIENE DOMANI E IL 25 GENNAIO ALLA CASA DELLE LETTERATURE DI ROMA. NON È FORSE UN CASO CHE SI COMINCI DA ROMA, DATO CHE QUEL TRATTATO COSÌ FIORENTINO, che l’ex segretario della repubblica scrisse per vedere se i Medici, padroni di Firenze, gli facessero almeno «voltolare un sasso», ha del resto più di un legame con Roma, dato che il legame Firenze-Roma era allora strettissimo (il papa Leone X, Giovanni de’ Medici, era figlio di Lorenzo il Magnifico): sappiamo che l’autore vi lavorò intensamente tra il luglio e il dicembre del 1513 grazie ad una celebre lettera del 10 dicembre diretta proprio a Roma, all’amico Francesco Vettori.
Il convegno romano, per iniziativa di Gabriele Pedullà, dà voce alla critica machiavelliana più giovane (anche qui si fa avanti quella che è stata chiamata generazione Tq): Pedullà ha peraltro pubblicato recentemente un poderoso e sostanzioso volume su Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio» (Bulzoni, 2011, pagine 633, euro 44,00), che, puntando sul rilievo che nel più ampio trattato dedicato alle repubbliche Machiavelli attribuisce ai conflitti sociali dell’antica Roma, vede tra i nodi essenziali del suo pensiero il radicarsi della «libertà» e potenza di uno stato nello spazio che le sue istituzioni danno al conflitto, a scontri tra le classi non distruttivi, ma rivolti in definitiva alla costruzione del bene comune.
Anche il programma del convegno sembra voler rivolgere una attenzione privilegiata ai Discorsi, seguendo una tendenza della critica machiavelliana degli ultimi decenni: ma comunque il tema della crisi permette di risalire dai Discorsi al Principe, dove pure non mancano richiami ai conflitti di classe, ai diversi «umori» dei «grandi» e del «popolo» (anche lì con una più diretta simpatia dell’autore per l’orizzonte «popolare», anche se la sua nozione di popolo è qualche cosa di diverso da quella moderna popolo, si avvicina di più, semmai, a ciò che intendiamo come classe media).
Il Principe è proprio libro che parte da una crisi, storica e personale: dalla constatazione della debolezza degli stati italiani, di fronte agli invasori francesi e spagnoli, e dall’amarezza per aver perso, con la sconfitta della repubblica e il ritorno dei Medici a Firenze, il proprio posto di segretario. Machiavelli lo scrive per offrirlo ai Medici, per mostrare la propria competenza, nella speranza di recuperare un ruolo nella politica fiorentina: indica linee politiche per la costruzione di un più forte potere principesco mediceo, nonostante la sua preferenza personale per la forma repubblicana. E questa sua riflessione sul principato, e sulla stessa possibilità di creare un principato «nuovo», è segnata da una specie di ansia critica, dalla continua verifica delle «difficoltà» che ineriscono ad ogni gestione del potere, delle minacce continue che gravano su di esso: del resto nella già ricordata lettera del 10 dicembre 1513 dice proprio che il suo «opuscolo» è rivolto a discutere «che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono». Tutte le mosse del principe e dei singoli principi di cui in quest’opera si tratta sono minacciate dalla perdita: e un perdente è alla fine quello che viene indicato come il più capace tra i contemporanei, da imitare come modello, Cesare Borgia, crollato alla fine per un imperdonabile errore. Non uno scienziato della politica, Machiavelli (come afferma una lunga tradizione che continua a prolungarsi), ma un radiografo della catastrofe, impegnato ad indagare sulle «difficultà», gli «inconvenienti», gli «errori» che gravano sull’esercizio del potere e sul controllo delle istituzioni sul mondo: che cerca soluzioni per rispondere alla crisi, che a loro volta restano implicate nella crisi, incardinate dentro le condizioni della crisi stessa. In questo quadro egli offre tutta una serie di rilievi di quella che oggi chiameremmo antropologia o psicologia sociale, individuando gli effetti di una politica dell’immagine, dell’illusionismo, della virtualità, l’efficacia di un puro «mostrare», capace di catturare consenso sulla base di non coscienza, di passività, di pulsioni e desideri eterodiretti dei cittadini-sudditi.
Per una serie di imprevedibili intrecci questo libretto è diventato vademecum della politica più spregiudicata, ferina, diabolica; ha finito per dare (o è sembrato farlo) indicazioni per la scalata al potere, per il suo più cinico esercizio. Forse oggi possiamo ripensarlo in una chiave diversa: usarlo non come manuale di comportamento politico (nel Novecento lo si è fatto spesso in maniera disastrosa, anche nella sinistra leninista e nei suoi deliranti prolungamenti), né come modello filosofico, ma come spinta verso una politica capace di farsi carico delle difficoltà, dei molteplici «inconvenienti» critici che gravano sull’equilibrio delle nostre società, capace di reagire alle derive morali, economiche, politiche, antropologiche, ecologiche in cui siamo presi. Una politica che sappia confrontarsi con l’«apparenza», per resistere alla sua risoluzione in pura immagine, negli effetti di comunicazione, in indifferente virtualità.

Quel Machiavelli non mi convince
Per secoli il segretario fiorentino fu "visto" come un torvo personaggio dal naso aquilino e sguardo gelido. Ma quello era il ritratto di Fino Fini. 
Storia di un'iconografia errata

Massimo Firpo

"Il sole 24 ore", 14 aprile 2013



L’unica immagine affidabile di Machiavelli oggi nota (forse desunta dalla sua maschera mortuaria) è quella offerta da un busto in terracotta policroma conservato a Palazzo Vecchio. Vestito di un abito rosso le cui maniche sporgono dal lucco nero, il segretario fiorentino vi è raffigurato in posizione frontale, con lo sguardo pungente e glaciale fisso davanti a sé, il volto reso affilato da un naso diritto, prominente e appuntito, le guance scavate sotto gli zigomi sporgenti e una fronte ampia e stempiata sotto i corti capelli scuri. Su di esso si basò intorno al 1570 Santi di Tito per realizzare un celebre ritratto, anch’esso a Palazzo Vecchio, in cui il volto del segretario fiorentino è animato da un allusivo, indecifrabile sorriso. Più volte replicato in incisioni, dipinti e sculture sino alla fine dell’Ottocento, quel quadro ha offerto per secoli l’immagine canonica di Machiavelli, più fortunata di quella scaturita dal ritratto commissionato a Firenze a metà Cinquecento da Paolo Giovio per il suo museo comasco, anch’esso peraltro replicato in numerose copie e incisioni. Ma l’immagine forse più celebre e intrigante di Machiavelli, peraltro priva di ogni fondamento storico, è quella nota come la "testina", che compare per la prima volta sul frontespizio delle sue opere edite da Comin da Trino a Venezia in 4 volumi: i Discorsi e le Historie fiorentine nel 1540, Il Prencipe. La vita di Castruccio Castracani da Lucca. Il modo che tenne il duca Valentinoper ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Paulo et il duca di Gravina. I ritratti delle cose della Francia et della Alamagnanonché il Libro dell’arte della guerra nel 1541 (l’ultimo dei quali privo di tale incisione). Affiancata dalle due iniziali N. e M., essa presenta il busto di tre quarti e rivolto verso destra di un uomo con la testa spelacchiata da un’accentuata calvizie e un vistoso naso aquilino, che sorregge con una mano un grosso volume e punta sull’osservatore uno sguardo gelido e penetrante, privo di ogni ironia e non addolcito da alcun sorriso: una vera e propria metafora visiva della spregiudicata mancanza di scrupoli dell’empio segretario fiorentino, se non della sua malvagità, della sua corruzione morale, della sua empietà. È molto probabile, del resto, che proprio per questo, per esprimere un’implicita condanna dell’opera si scegliesse l’immagine di quel volto torvo e infido, che costituisce dunque un frammento del nascente antimachiavellismo europeo, l’archetipo della sua tradizione iconografica, non a caso destinato a essere messo da parte nel Sette-Ottocento, quando avrebbe cominciato ad affermarsi un nuovo e diverso modo di guardare al «cittadino e segretario fiorentino», mentore e precursore del riscatto italiano contro l’oppressione straniera. Poco dopo la stampa del 1540, sempre a Venezia, nel 1552, il piccolo rame fu utilizzato da un altro stampatore nell’edizione del primo libro dei Mondi di Anton Francesco Doni, mentre copie di esso sono le "testine" che figurano sul frontespizio di ben 5 contraffazioni seicentesche di Tutte le opere di Machiavelli apparse con la falsa data del 1550. Un’altra copia dell’ormai celebre "testina", infine,compare sul verso del frontespizio delleHistoriae florentinae in traduzione latina apparsa a Strasburgo nel 1610, in cui l’effigie di Machiavelli era accompagnata da alcuni versi che presentavano l’opera in una inopinata chiave protestante.
Il brutto, arruffato e spigoloso personaggio che offriva il suo volto a quell’incisione, tuttavia, non aveva nulla a che fare con Niccolò Machiavelli. Si chiamava Fino Fini, ma amava firmarsi come Fino Adriano Fini in quanto era nato nel 1431 ad Ariano, borgo del Polesine in diocesi di Adria, ma risiedette per tutta la vita a Ferrara. Uomo di notevole cultura, allievo di Guarino Veronese, lavorò fino alla morte al servizio degli Estensi come tesoriere ducale. Non è noto quando e perché egli cominciasse a studiare l’ebraico, forse sollecitato dal fatto che a Ferrara viveva una nutrita comunità giudaica, con la quale è probabile che egli avesse qualche rapporto – presumibilmente non idilliaco –per negoziare prestiti a beneficio delle casse ducali, anche se non si può escludere una sua discendenza da ebrei convertiti. Diventato un appassionato lettore di libri di apologetica antigiudaica, dopo aver ormai superato i settant’anni Fini decise di dedicarsi egli stesso alla stesura di un’opera molto ambiziosa, cui avrebbe lavorato con grande passione fino alla morte, avvenuta nel 1519, mentre era impegnato nell’ultima correzione del testo. Fu lui a dargli il titolo In Iudaeos flagellum ex sacris Scripturisexcerptum, in cui compendiava il significato della sua lunga fatica, volta a dimostrare che Gesù era colui nel quale si erano avverate le antiche profezie, non senza scagliare contro i figli d’Israele le consuete accuse di cospirare a danno dei cristiani, di praticare avidamente l’usura, di trasgredire la stessa legge mosaica.
Fu suo figlio Daniele a riprendere in mano vent’anni dopo il manoscritto lasciato dal padre (ancor oggi conservato alla Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara) e, dopo averlo fatto rivedere attentamente, a prendere l’iniziativa di pubblicarlo a Venezia per i tipi di Antonio Nicolini da Sabio e a spese di Federico Della Torre nel 1538 in due volumi in-quarto, per complessive 1.230 fittissime pagine su due colonne composte con caratteri minuti e dense di abbreviazioni. Al centro del frontespizio compare la severa immagine dell’autore che sostiene davanti a sé un grosso libro sulla cui costa si legge In iudaeos flagellum. Non è necessario soffermarsi sui contenuti e le caratteristiche dell’opera, ancora elogiata da Roberto Bellarmino nel 1612, né su Fino o Daniele Fini, poiché ciò che in questa sede interessa è solo il fatto che da quella piccola incisione fu tratta con tutta evidenza la "testina" di Machiavelli, che non a caso nelle successive copie di esse appare in controparte, a cominciare da quella sul frontespizio dei Discorsi editi nel 1540: identico il profilo del volto, il naso adunco, i capelli radi e scomposti, il lucco da cui fuoriescono le maniche chiuso intorno a uno stretto collettino bianco, la mano che in primo piano sorregge il volume, sul quale manca ovviamente l’indicazione del titolo In iudaeos flagellum.
In una collezione privata si conserva anche il dipinto originale sul quale quell’incisione fu esemplata, vale a dire una tempera su tavola (cm68x50) attribuita al ferrarese Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, che reca sul retro il giglio farnesiano con a fianco il numero 98. Come ha indicato Giuseppe Bertini (Il ritrovato ritratto di Fino Fini, 1431-1519, proveniente dalla quadreria di palazzo Farnese a Roma, Mélanges de l’Ècole française de Rome, CVIII, 1996, pagg. 377-79), quel numero e quelle misure corrispondono con assoluta precisione all’inventario dei quadri del Palazzo del Giardino di Parma redatto nel 1680, dove al n. 98 si legge: «Un quadro alto braccia uno, oncie tre, largo oncie undici in tavola. Ritratto d’huomo attempato, tiene nella sinistra un libro, in cui è scritto Juda flagellum, si dice Nicolò Machiavelli». Con il che il percorso che dal ritratto dipinto su questa tavola era giunto al frontespizio dell’opera di Fino Fini, e di qui alle stampe machiavelliane di Comin da Trino del 1540-41 sino alle contraffazioni editoriali seicentesche e oltre ritornava al punto di partenza, e così come in una direzione era stato l’oscuro tesoriere ferrarese a dare al segretario fiorentino il suo volto, deformato in una sorta di abietta caricatura e non esente dal marchio di una connotazione antisemita evidente nei tratti somatici del volto, nell’altra era adesso l’autore del Principea dare il suo nome all’arcigno polemista antigiudaico che vi è raffigurato. Il giglio sul retro indica la provenienza della tavola dal Palazzo Farnese di Roma, donde fu inviato a Parma il 27 settembre 1662 insieme con altre 102 opere, tra i cui autori figuravano Andrea del Sarto, Agostino e Ludovico Carracci, Giovanni Lanfranco, Raffaello, Sebastiano del Piombo, Tiziano, il che indica che esso era considerato tra i quadri più preziosi delle collezioni farnesiane. Nell’elenco di tali opere il dipinto è descritto come «un quadro in tavola con un ritratto d’un uomo vecchio raso con un libro in mano con lettera Juda Flagella..., segnato n. 98». Fu senza dubbio lo stesso Daniele Fini a farne dono a Paolo III, in occasione di una sua visita a Roma, forse per ringraziarlo di prebende o riconoscimenti da lui ricevuti. È probabile che, con tutti gli enormi problemi politici che dovette affrontare, papa Farnese non trovasse il tempo di soffermarsi su quel quadro e di cogliere la strana somiglianza tra il volto che vi era raffigurato e l’incisione posta sul frontespizio delle edizioni veneziane dei Discorsi, delle Historie fiorentine e del Principe di Machiavelli apparse nel 1540-41. Ma è altrettanto probabile che il vecchio pontefice trovasse il tempo per leggere qualcuna di tali opere, se non altro l’ultima, dalla quale in più di una circostanza dimostrò di aver imparato qualcosa nell’usare ora l’astuzia della volpe ora le forza del leone per guidare la Chiesa nei difficili frangenti che stava attraversando, senza rinunciare – per sé e per i suoi figli e nipoti – a diventare «principe nuovo» e a «farsi stato», dando vita al ducato farnesiano di Parma e Piacenza. Della conversione degli ebrei, invece, il chiodo fisso di Fino Fini, forse gliene importava un po’ meno.

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