Guido Ceronetti
"La Stampa", 31 dicembre 2012
L’inglese impone il suo dominio a poco a poco sull’insegnamento dalle elementari alle università
L’IDIOMA DI SHAKESPEARE Bisogna impararlo bene, anche per dargli la caccia meglio dove insidia le altre parlate europee
Da spread a spending review, da entrance a high tech, il nostro italiano vittima della violenza anglomaniaca. Ma la perdita dell’identità linguistica è una sconfitta nazionale che si traduce in orfanità dell’esserci.
Non sprechiamo passione civile, di cittadini, per l’Italia che muore per abdicazione alla lingua, al suo uso corretto, mancanza di scudi sulle mura. Non per politica scellerata, non per diritto imbrattato di crimine (iusque datum sceleri), non per sventure e colpe economiche: quella che viviamo è morte di una nazione che arrivata con sanguinosi sforzi all’unità linguistica, in cui tutto esiste e consiste, l’ha buttata, la sta buttando ogni giorno, nelle pattumiere, nelle discariche, nelle latrine. Poiché ne porto, per mia sventura, il lutto, e lo grido dalle colonne di un giornale, vuol dire che di passione civile non mi sono ancora sbarazzato del tutto.
Ma lo vorrei; perché la passione civile, in Italia, è un malvivere e un mal-di-vivere di troppo.
Avendo votato, per due volte, inutilmente, Matteo Renzi, vorrei dirgli, poiché resta sindaco di Firenze, qualcosa che avrei detto allo sperato (nell’ignoto giace sempre la speranza) presidente del Consiglio. Renzi, per favore, fa’ sparire da Firenze, primo sindaco in Italia, anche se ritardatario, l’arrogante turpitudine del bilinguismo anglo-italiano e dell’unilinguismo, vincente e dilagante in tutto, anglo-americano. Valga anche qui la parola sublime di Machiavelli: «A ognuno puzza questo barbaro dominio», e dai alle sue e alle altre ossa in Santa Croce un po’ di vendetta e di pace. Lode su tutti gli altari alla lingua di Shakespeare e della Bibbia di Re Giacomo, di Lewis Carroll e di Herbert George Wells, di Malthus e di Keynes, ma dev’essergli contrastata e in tutti i modi ostacolata la penetrazione irresistibile, la pervasività insolente qui dove gloves vorrebbero essere guanti, shoes scarpe, e impatto con la sua ignobile prole verbale (impattare) tarla le corde vocali, entrance spiccante sulle porte di tutti gli autobus offende l’intelligenza comune.
Appena si è messo a vagire nelle predicazioni il controllo dello spesone pubblico appestante, subito l’italiano si è arricchito di una nuova bestia: spending review! È forza ormai rotolarsi in media emediatico, insostituibili e assimilabili; però chi fa uno step è uno scemo, e fare shopping, andare in giro per acquisti, vale soltanto se detto ironicamente. (Anche business, pronunciato ironicamente bu-si-ness, con pronuncia italiana, si riscatta). Ma spread? Vorrei mettergli il morso, la museruola, ormai lo ripetono anche i merli... Attualmente è il suono più ansiogeno di questa povera penisola: tentiamo di spegnerlo usando al suo posto differenza ?
L’anglomania teleguidata lavora a macchia d’olio su quasi tutto il linguaggio bancario e finanziario. Inglese è già tutta l’espressione informatica, a partire dalla parola stessa, e tutti i problemi sono problematiche, i metodi metodiche, una metodica che richiede sforzo per comprenderla è High-Tech. Come un’ideologia totalitaria morbida, l’inglese a poco a poco va imponendo il suo dominio sull’insegnamento scolastico, dalle elementari, dov’è un aggravamento inutile per menti verdi, ai corsi universitari politecnici, le lezioni più importanti impartite direttamente in inglese sono per la lingua patria come una marcatura veterinaria su un animale da macello. Autorizzarli è un gesto di dispregio che ci disonora. Punirei costoro con ben mirati graffiti: «Il Rettore Tale permette corsi direttamente in una lingua straniera». Se siamo scudi di Termopili degni dell’epitaffio di Simonide, non mettiamoci i gloves contro l’invasore persiano. Ricordiamoci: la perdita dell’identità linguistica è sconfitta nazionale, che si traduce in orfanità dell’esserci.
Se si debba o no studiare l’inglese, ovvia è la risposta: va studiato bene, e non con corsi celeri più una settimana di turismo. A me duole di non averlo imparato, un articolo facile mi fa sudare, non sono mai andato beyond the Channel, però del tempo di Vittoria mi sembra di saper tutto, per morbosità intellettuale. Bisogna impararlo bene per patrimonio mentale, e per dargli la caccia meglio dove insidia lingue europee che non ne sono da meno! E poi perché a non metterlo nel curriculum giovani e ragazze non li assum e r e b b e un cane. Una parentesi. Nell’imperversare di barbarismi e di improprietà da grido, quando si pluralizza curriculum si usa compuntamente il latino dei manuali: curricula, che suona ridicolo, buffonesco... Ma curriculum è parola italianatissima, non sottolineabile, e vale sia al singolare che al plurale. Perciò usiamo «i» curriculum senza timore: è correttissimo, non fa una grinza.
Aiuto! A Lampedusa stanno sbarcando, da Performland, i Performanti! Sono cannibali, mangiano lingua bollita - lingua italiana, vecchia di otto secoli, ma per i loro gusti non male...
Sul numero 5 del bimestrale Vita e Pensiero, non sprecata rivista dell’Università Cattolica, trovate una conferma di quanto dico nel saggio di Georges Prevélakis sull’erosione della cultura greca e il suo fatale decadimento, a partire dal 1981, per follia economica, abbandono della lingua, snervamento degenerativo dello stesso carattere nazionale. Il parallelismo con la situazione italiana è evidente, ma l’autore non accenna alle possibili devastazioni prodotte dall’incrostarsi dell’anglofonia e dell’anglografia su una lingua che si vale tuttora, fortunatamente, di un alfabeto diverso dall’europeo, con effetti semantici difformi e spesso discordanti dai nostri. Grecia è Oriente, e insieme madrina di tutto l’Occidente: lasciar morire la sua cultura (subisce tagli su tagli, come da noi) è far perire nello stesso tempo la sua economia strascicata. Siamo due lingue naufraghe, allo sbaraglio, vittime di stupro, su entrambe le sponde.
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