martedì 29 gennaio 2013

Complimenti per gli errori


Angela Vettese 


"Il Sole 24 Ore", 27 gennaio 2013

Errare è umano, ma non sempre occorre chiedere scusa. A volte basta aspettare che il tempo passi e che ci dia ragione. Questa è la tesi di Clement Chéroux nel libro, ripresentato da Einaudi, L’errore fotografico. Una breve storia.

Ovviamente l'autore, conservatore del fondo fotografico del Centre Pompidou, sa che l'esempio in un campo così ristretto si presta a diventare metafora per ben altro: senza scomodare la filosofia scettica, il primo momento cui il beneficio del dubbio si è palesato come motore del nuovo ci ricorda l'importanza del tema per la forma mentis del Novecento: Samuel Beckett ha dedicato al successo che deriva dal fallimento un libro intero; i maestri surrealisti André Breton e Paul Eluard avrebbero voluto scrivere un libro intitolato "I cavalieri dell'errore"; Francis Picabia sosteneva addirittura che «l'arte è il culto dell'errore»; Jorge Luis Borges avrebbe voluto che i suoi libri conservassero tutti gli errori di battitura della dattilografa, come un segno di apertura a un altro senso o al nonsenso.
Dietro a questa accettazione dello sbaglio c'era la convinzione che esso avrebbe portato molto anche alla scienza: sul piano della persona, Sigmund Freud aveva fondato sulla disamina dei nostri svarioni un'evidenza dei nostri veri desideri, dei quali i lapsus, le mancanze e le gaffe sarebbero elementi rivelatori; sul piano del sapere condiviso Gaston Bachelard, nel suo libro dedicato a La formazione dello spirito scientifico, sostenne che è l'ombra gettata su quello che già sappiamo, l'ostacolo, la macchia, a spingerci verso l'individuazione e la soluzione dei problemi. 
Già nel 1754, del resto, Horace Walpole aveva portato nella terminologia della scienza il mito arabo dell'isola di Serendippo, quel paradiso in cui tutti i contrattempi finiscono per diventare vantaggiosi. Usò infatti la parola serendipità per descrivere la situazione per cui si scopre qualcosa mentre se ne cercava un'altra, magari meno rilevante. E sappiamo che buona parte della rivoluzione scientifica è stata basata sul sistema del Trial and Error. In generale, evolvere il sapere implica un tradimento del canone che non è facile affrontare da soli. Non si nega volentieri ciò che si è sudato per imparare e interiorizzare. A volte quindi una svista – ma anche la nostra capacità di guardarla meglio e di non scartarla – rappresenta l'aiuto di cui si ha bisogno. 
Nel 1913, il fotografo Jacques-Henri Lartigue fotografò un'automobile al Gran Prix e la stampa risultò storta e alterata. Lui se ne disperò, ma già nel 1924 Man Ray cercò volontariamente lo stesso effetto a Cannes, perché quel genere d'imperfezione dava la sensazione della velocità. Uno degli sbagli stigmatizzati dai manuali per fotoamatori è sempre stata la presenza della sagoma di chi fotografa al centro della scena. Ma, comprendendo il fascino fantasmatico di quel grigio, già nel 1927 André Kertész scattò un autoritratto di profilo proprio con questo sistema.


In maniera piuttosto sistematica, sia Man Ray sia Lazlo Moholy-Nagy sondarono tutti gli errori tipici del linguaggio fotografico per inventarne una nuova grammatica. Dopo avere raggiunto una buona efficienza tecnica delle macchine, si poteva provare l'effetto di una volontaria disobbedienza al loro buon utilizzo. Ne nacquero immagini sfuocate; scatti sovrapposti sul medesimo fotogramma; immagini sovraesposte o sottoesposte alla luce; bordi bruciati da processi di solarizzazione; cattivi risultati ottenuti con teleobiettivi e grandangoli; figure mosse; carta fotosensibile impressionata dalla luce ma senza la mediazione dell'obiettivo, in modo da rendere visibili le sagome degli oggetti posati sul foglio; e così via. 
La lezione fu imparata dai migliori e usata in modo consapevole e a volte commovente: Chéroux cita l'esempio delle Verifiche di Ugo Mulas, senza però ricordare la più impressionante di quelle immagini. In un autoritratto con la moglie, lui si ritrae in modo sfumato mentre lei, alla stessa distanza dalla macchina fotografica, risulta perfettamente a fuoco: un modo per raccontare tante cose, tra cui la propria malattia, la volontà di insegnare un mestiere alla madre delle sue figlie e la capacità di esprimere attraverso un dispositivo tecnico l'impatto emotivo della morte. 

Molta della fotografia che attraversa i canali del reportage – a cui è sempre stata consentita una più vasta licenza di errare –, così come quelli più estetizzanti della pubblicità e della moda, ha scelto lo sbaglio come un vezzo e lo ha incluso nel gusto corrente. La foto diurna scattata con il flash rende più pallida e bella la modella, quella che distorce il cibo o che modifica i suoi colori rende il piatto più esotico e goloso, il filmato che balla o in un bianco-nero bruciato sa di altri tempi. 
Un artista come Wolfgang Tillmans, che conosce anche i canali commerciali, usa il caso e la distorsione come metodo. 

Un fotografo preciso come Thomas Ruff, che ha incominciato usando il banco ottico, ora prende le immagini da internet per farne emergere la mancanza di risoluzione e con essa una selva di pixel. In era digitale, molti video sono composti sull'errore di caricamento, di completezza, di montaggio, come quando sullo schermo del computer, invece di una figura, appare il codice numerico che la determina. I nuovi errori ci stanno raccontando che le immagini viaggiano e che il teletrasporto può dare o togliere loro una parte della prima identità. 

Morale: non buttare via niente delle cose che sembrano malfatte. A volte si incappa in ipotesi inverosimili, come nel caso delle foto spiritiche che alimentarono la fama di alcuni medium e che, invece, erano trucchi o sbagli inutili. Ma a volte invece s'impara a sbagliare meglio e di più.

Clement Chéroux, L'errore fotografico. Una breve storia, Einaudi, Torino, pagg. 146

Le torri storte
Dice un proverbio: «Gli errori dei medici finiscono sotto terra, quelli degli architetti sotto gli occhi di tutti». Piuttosto vero. Volete un caso eclatante e noto in tutto il mondo? La Torre pendente di Pisa. Il celebre campanile di Piazza dei Miracoli, alto circa 56 metri e costruito tra il XII e il XIV secolo è pesante 14mila tonnellate. La sua pendenza verso sud è dovuta a un cedimento del terreno verificatosi già nelle prime fasi della costruzione, in quanto nessuno dei costruttori iniziali fu in grado di calcolare bene il peso che la superficie sottostante avrebbe potuto sopportare.
Nei secoli la Torre ha continuato inesorabilmente a inclinarsi, provocando spaventi e allarmi ricorrenti, e conseguenti corse alla ricerca di rimedi efficaci per la sua salvezza. Ma, ahinoi, molto spesso i rimedi escogitati non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, al punto che possiamo tranquillamente affermare che se la Torre di Pisa è così pericolosamente storta la colpa andrà equamente ripartita tra gli architetti che la elevarono nel Medioevo e gli ingegneri che – dall'Ottocento a oggi – hanno tentato, spesso maldestramente, di raddrizzarla.
i pasticci di Bernini
Recenti studi hanno portato a galla un dato piuttosto clamoroso: ci si è accorti che il grande Gian Lorenzo Bernini, lavorando alle statue, poteva commettere errori clamorosi. Ad esempio, le sculture gli si rompevano tra le mani, come accadde col busto di Scipione Borghese il quale improvvisamente si spaccò all'altezza della calotta cranica. Raccontano le fonti che in quel caso Gian Lorenzo non fece una piega, prese un nuovo pezzo di marmo e realizzò una replica esatta del busto, cosicché oggi la Galleria Borghese ha il privilegio di possederli entrambi, uno intatto e l'altro fallato. Nel realizzare la seconda versione Bernini si dimostrò recidivo: usò lo stesso blocco di marmo e una nuova crepa si aprì sulla mantellina del porporato. Che cosa era successo? Semplice, mentre Michelangelo riserva alla scelta dei marmi una cura quasi maniacale, recandosi direttamente a Carrara per scegliere blocchi perfetti e abbandonando senza indugio opere già principiate se nel corso del lavoro rivelavano improvvise impurità, al contrario Bernini non badava mai alla qualità del marmo e scolpiva ciò che gli veniva tra le mani senza troppi controlli.

Nessun commento:

Posta un commento