sabato 5 gennaio 2013

Legge e sentimento


Francesco Saverio Borrelli intervistato da Franco Marcoaldi

“Non esistono i sacerdoti della Legge ogni sentenza ha bisogno di sentimento”
L’ex magistrato spiega 
come non ci siano mai applicazioni asettiche e meccaniche del diritto
perché ognuno porta con sé il proprio bagaglio culturale, morale e cognitivo

"La Repubblica",  5 gennaio 2013

Tra le molteplici accezioni della parola “giudizio”, una crea particolare allarme: quando viene associata alle aule di tribunale. È allora che “l’arte di giudicare” diventa più delicata che mai. Se per dibattere tale questione ho scelto come interlocutore Francesco Saverio Borrelli, non è tanto per i suoi trascorsi in qualità di capo del pool Mani Pulite, quanto per la grande perspicacia, giuridica e non solo, e per una capacità di ascolto che si va facendo sempre più preziosa. Conversando con lui, qualche mese fa, vengo a sapere il titolo (bellissimo) della sua tesi di laurea, “Sentimento e sentenza”, che nella giustapposizione di due termini almeno in apparenza antitetici, ci offre il giusto avvio per intavolare questa nostra discussione. Il cui cuore sintetizzerei così: il giudice è soltanto un sacerdote passivo della Legge o quando emette una sentenza ci mette inevitabilmente del suo?
«Dire che la sentenza dei giudici è un’esecuzione asettica e meccanica non ha nessun senso. Dire che è frutto di un processo creativo, è altrettanto sciocco e pericoloso: la scuola del diritto libero è fiorita non a caso ai tempi di Hitler. La mia tesi intendeva sollevare questo problema e cercare un punto di equilibrio ragionevole, secondo un’angolazione che allora non era di moda. Mi rendo conto che può risultare un tantino provocatorio l’accostamento dei due termini, “sentimento” e “sentenza”, che, pur provenendo da una origine linguistica comune, il verbo sentire, nell’uso indicano due referenti divaricati: il primo, connotato da un’aura emotiva, intuitiva, irrazionale o pre-razionale; il secondo, connotato da severità, rigore logico, autorevolezza o autorità».
Relatore della tesi era Piero Calamandrei.
«Sì, fu lui, ex costituente e professore di procedura civile, a propormi quel binomio, con un’intenzione particolare: indagare sulla percezione istintiva giusto/ingiusto, ragione/torto, con cui viene recepita l’esposizione di una vicenda controversa, ancor prima di averla sottoposta ad analisi con gli strumenti del caso. Così impostato, il tema mi sembrava richiamare questioni tipiche del giusnaturalismo. Ma io preferii svicolare da quella traccia e puntare sulla critica dell’insegnamento tradizionale, permeato di un certo bigottismo montesquieano e illuministico, secondo cui la sentenza sarebbe assimilabile al sillogismo categorico degli Analitici Primi di Aristotele: premessa maggiore (la norma di legge), premessa minore (il fatto), conclusione (applicazione della norma al fatto)».
Insomma: esiste una norma, esiste una procedura mentale millenaria e consolidata… Si fa convergere l’una sull’altra e il gioco è fatto.
«Per smontare questo insegnamento tradizionale, che immiseriva in una sorta di operazione aritmetica l’attività del giudice, dovetti partire da una nozione di sentimento comprensiva di tutto ciò che è il sentire del giudice, in quanto tale, e prima ancora in quanto uomo provvisto di una propria formazione mentale, di un proprio bagaglio culturale, di una propria esperienza di vita e di un insieme di filtri cognitivi e morali più o meno congruenti con il clima storico-ideologico nel quale vive. Tutti fattori che non possono non condizionare la sua lettura della legge, la percezione del fatto e delle fonti testimoniali».
Se ho ben capito, ogni giudizio va storicizzato. E in qualche misura, addirittura personalizzato.
«Non foss’altro perché il linguaggio della legge, delle leggi, rimanda all’universo linguistico extragiuridico circostante.
Ne discende che lo schema sillogistico esposto in precedenza non regge, se non come scheletro di un’operatività mentale in realtà molto più complessa, che vede il giudice-interprete mettere in causa tutto se stesso e tutta la propria cultura, giuridica e profana, per stabilire il contatto tra una fattispecie concreta e una fattispecie astratta su cui commisurarla».
I maligni, a questo punto, parlerebbero del rischio di politicizzazione della giustizia.
«Quanto ho detto serve semmai a prendere consapevolezza che l’individuo-interprete non può essere trasceso, che il fare giustizia rientra inevitabilmente nella dimensione del policy making.
Ma l’onestà intellettuale e la fedeltà al mandato vietano al giudice di enfatizzare questa inevitabilità e di stravolgere l’interpretazione, strumentalizzandola a finalità di deliberato indirizzo politico. Riconoscere una dimensione intrinsecamente politica al provvedimento del giudice, non significa affatto che il giudice sia autorizzato a proiettare la propria ideologia nella decisione che deve prendere».
Nel film di Sidney Lumet, Il verdetto, l’avvocato (Paul Newman) rivolge alla giuria una domanda: come si fa ad emettere un verdetto imparziale senza che l’imparzialità si trasformi in indifferenza? È una domanda abituale per un giudice?
«Il lavoro del giudice, a tratti, può diventare tormentoso. Perché bisogna imparare a leggere, prima che nella legge, dentro se stessi. E chiedersi perché ci si sta orientando in un determinato modo. Dunque bisogna fare pulizia di tutti quegli elementi che potrebbero risultare distorsivi nella decisione che si va assumendo. A volte si ha la sensazione di procedere lungo un sentiero in cresta, dove si rischia a ogni passo di scivolare da una parte o dall’altra, verso il pigro burocratismo o verso una creatività sleale. Ma tutto questo riguarda poi soltanto i magistrati? O non è croce e delizia di tutti i lavori in cui si devono formulare giudizi?».
La mia domanda può essere anche rovesciata: come evitare che la presenza del sentimento tracimi nella sentenza, e dunque la sentenza si trasformi in vendetta?
«Questo è un punto molto delicato. Perché il rischio di un coinvolgimento emotivo a favore delle parti lese, o negativo verso l’imputato, può effettivamente trovare acquietamento nella sdegnata applicazione della punizione, nell’esclusione temporanea o perenne del reo dalla trama della società, insomma nell’esercizio della vendetta che la collettività vuole quando invoca giustizia e che l’ordinamento esegue incarcerando il colpevole».
Simone Weil sosteneva che abbiamo perso la nozione di castigo. «Non sappiamo più che esso consiste nel fornire del bene. Per noi si limita a infliggere del male ».
«Il carcere è la punizione per antonomasia. Perché la punizione, perché il carcere? Per ristabilire l’ordine violato, risponde la scuola classica. Per difendere la collettività, risponde la scuola positiva. Per prevenire, con la privazione della libertà, la violazione dell’ordine. Per rieducare il condannato, soggiunge la Costituzione. Tolta la teoria classica, che copre con un simbolismo di maniera l’istanza vendicativa, senza spiegare come possa l’inflizione di una sofferenza compensare idealmente il male perpetrato, e concesso il debito spazio al precetto costituzionale della rieducazione del condannato, ciascuna delle altre risposte dà solo parziale soddisfazione all’interrogativo. Per certo nessuna può essere assolutizzata, nemmeno quella basata sulla teoria della controspinta del grande Gian Domenico Romagnosi. L’autore del delitto, prima di risolversi a farlo, compirebbe una sorta di calcolo mentale, valutando i pro e i contro della sua azione alla luce della pena comminata. Ma è una teoria irrealistica se riferita a certe forme particolarmente gravi e cruente di delinquenza (delitti d’impeto, passionali, legati alla marginalità sociale), mentre può funzionare come efficace dissuasore in caso di devianze minori. Solo che a quel punto la pesantezza della sanzione dovrebbe essere inversamente proporzionale alla gravità dell’infrazione, il che è francamente inaccettabile».
E dunque?
«Dunque il sistema punitivo andrebbe ripensato ab imis con un più puntuale adattamento delle possibili reazioni dell’ordinamento alle varie forme di criminalità. Se occorre, anche sfidando l’opinione pubblica e le aspettative popolari di cosiddetta giustizia. Adattare le modalità della difesa sociale alla sensibilità umana propria di una civiltà avanzata, non significa aprire i cancelli delle carceri a tutti i condannati e dare via libera alla criminalità. Semmai significa disegnarle e dimensionarle e applicarle tenendo presenti le finalità a cui è ragionevole mirare. Significa, per le istituzioni, prendersi cura del soggetto deviante non meno che della collettività che ha subito l’offesa».

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