domenica 27 gennaio 2013

Avraham Yehoushua: «Ricordare serve al futuro»


Lo scrittore israeliano sottolinea che la demonizzazione dell’altro nasce spesso dall’ignoranza 
ma la cultura non basta: per essere morali bisogna compiere atti morali



Intervista di Umberto De Giovannangeli

"l’Unità",  27 gennaio 2013


LA PASSIONE PER LA POLITICA STAVOLTA NON È L’OGGETTO DEL NOSTRO COLLOQUIO. STAVOLTA, CON AVRAHAM YEHOSHUA, IL PIÙ GRANDE TRA GLI SCRITTORI ISRAELIANI CONTEMPORANEI, L’ARGOMENTO DI RIFLESSIONE È QUELLO CHE NON TRAMONTA MAI: LA MEMORIA. E, in particolare, la memoria di un popolo, quello ebraico, che è parte fondante di una identità che si è fatta Stato: lo Stato d’Israele. Una memoria che va coltivata, aggiornata, riflessa nel presente, innovata negli strumenti della sua comunicazione e socializzata alle nuove generazioni. Perché essa, rimarca Yehoshua, «sopravviva a coloro che ne sono stati i portatori». Da uomo di cultura, spesso a contatto con i giovani in Israele e nel mondo, Yehoshua mette l’accento sul fatto che «la demonizzazione dell’altro da sé spesso nasce dall’ignoranza e si alimenta di stereotipi. Al tempo stesso, però, non bisogna cullare una idea salvifica della cultura. La cultura non basta: nazismo e fascismo sono nati in Paesi ricchi di storia, musica e arte».
Oggi, 27 gennaio, si celebra la Giornata della memoria. E la memoria torna alla Shoah. Vista con gli occhi del presente, cosa rappresenta quella tragedia?
«Indubbiamente rappresenta l’apice del male nella storia dell’umanità, ma non ne è il simbolo. Se ci concentriamo sulle immagini terrificanti della Shoah, sembra che sia tutto accaduto là, a quel tempo. Un evento terribile ma circoscrivibile nel tempo, storicizzabile. Invece non è così. Ed è un bene che sia creato un ponte tra quello che è stato e la nostra vita quotidiana. I soggetti più pericolosi in tutto questo non sono state le SS, un piccolo gruppo in fondo, ma la moltitudine silenziosa e indifferente che ha permesso che ciò si verificasse. Una lezione che dobbiamo avere sempre davanti agli occhi. Per quanto ci riguarda, come ebrei, abbiamo visto sulle nostri carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e ogni popolo. Dobbiamo portare la bandiera dell’opposizione al razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni. Il nazismo non è una manifestazione solamente tedesca ma più generalmente umana, di fronte a cui nessun popolo è immune. Guardiamoci attorno: gli orrori presenti non hanno toccato i vertici della seconda guerra mondiale, ma gli avvenimenti del Biafra, del Bangladesh o della Cambogia, la pulizia etnica in Bosnia, non sono poi così lontani dalla violenza del massacro nazista. E allora, noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda, da cui ogni popolo può essere affetto. E in quanto portatori di anticorpi dobbiamo anzitutto curare il rapporto con noi stessi. Dobbiamo farlo, per scongiurare il rischio di restare indifferenti al male. Poiché dietro di noi c’è una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni sofferenza meno violenta della nostra. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra sensibilità, perché dobbiamo ricordarci che il fatto di essere stati vittime non è sufficiente per conferirci uno status morale. La vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto, al di là delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le vittime. Per essere morale bisogna compiere atti morali. E per questo affrontiamo gli esami quotidiani». 
Recenti rapporti indicano che l’antisemitismo è tutt’altro che debellato. Quali misure si aspetta dall’Europa per debellare questo virus?
«Sono preoccupato del fatto che, purtroppo, il virus dell’antisemitismo non è stato debellato. Forse si è indebolito; oggi non può mostrarsi in tutta la sua virulenza perché considerato inadatto, sconveniente; ma nelle sue nuove mutazioni continua ad essere presente e a lanciare anatemi e accuse spesso ingiuste contro Israele. Io sono il primo a sollevare critiche sugli errori dei governi israeliani, ma nello stesso tempo individuo spessissimo in molti degli attacchi portati a Israele cose che con le divergenze politiche non hanno nulla a che fare e che riportano invece a meccanismi che vorremmo cancellati. So che debellare completamente l’antisemitismo è un obiettivo proibitivo. Ma non lo è il combatterlo sotto ogni sua forma. L’Europa lo deve combattere con tutta la sua forza. Non per il bene degli ebrei ma per il proprio bene. Per la salute delle proprie società. Per non permettere che questo virus si espanda e colpisca le parti vitali del proprio organismo. La Giornata della Memoria ha dietro di sé una storia breve, ma mi sembra già di individuarne la sua importanza. Una importanza che non sta, ovviamente, nelle cerimonie che avvengono quel giorno, ma in tutto quello che c’è intorno, che la prepara: le azioni educative; la trattazione dell’argomento da parte dei mass media. Con il bombardamento di informazioni che ognuno vive ogni giorno, solo un approfondimento morale e intellettuale del tema ha la possibilità di penetrare il cuore e le menti. E gli ebrei continueranno ad aggiungere a questo approfondimento, il proprio lutto, individuale e di popolo».
Oggi i pericoli all’esistenza di Israele vengono soprattutto dall’Islam radicale che spesso, come hanno fatto i dirigenti iraniani, abbraccia le tesi negazioniste sull’Olocausto. Come va trattato questa forma aggiornata e «mascherata» di antisemitismo?
«In questo sta il doppio impegno dell’Europa. Capire per sé stessa per il proprio passato e per il proprio futuro e dall’altra parte aiutare altri in questo caso il mondo islamico e arabo a capire fin dove può portare l’estremizzazione. Solo l’Europa può convincere il mondo arabo degli effetti distruttivi della demonizzazione e della volontà di annientare un altro popolo. E qui entra in gioco la politica. Ma quella buona; quella che potrebbe portare alla soluzione del conflitto fra arabi e israeliani, ad una pace giusta fondata sul principio dei “due popoli, due Stati”. Con un’Europa che nella sua equidistanza faccia capire al mondo arabo la legittimità dell’esistenza di Israele come patria del popolo ebraico, e a Israele la necessità di dare ai palestinesi un proprio Stato in cui non ci sia alcuna sua ingerenza nelle loro vite. Dopo aver giocato durante la Shoah il ruolo di portatrice di guerra, l’Europa deve ora cercare di essere portatrice di pace».
Perché i giovani dovrebbero coltivare la memoria di un tempo che a loro appare così lontano, impercepibile?
«Perché ricordare è la base del futuro. E perché il passato, nelle sue espressioni più tragiche, può ripresentarsi, in forme nuove e per questo più insidiose».

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La razza non esiste. Il razzismo sì
La genetica ha dimostrato che la diversità bilogica è data dall’appartenenza alla stessa specie
Alberto Piazza

La genetica umana, oggi assai sofisticata, ha dimostrato che la diversità biologica tra due individui qualsiasi della nostra specie è dovuta per l’85% al fatto che appartengono appunto alla stessa specie, e per il 10% al fatto che la loro origine geografica si colloca in continenti diversi: pertanto la differenza del colore della pelle, che più di ogni altra ha alimentato lo stereotipo razziale, occupa nello spettro della diversità biologica una frazione minima. A questa frazione tuttavia è stato associato il massimo valore sociale e culturale perché il nostro occhio è capace di distinguere differenze di colore e di forme, ma non differenze in sequenze di Dna, ben più determinanti nella nostra vita biologica.
È comunque necessario interrogarsi sul motivo per cui lo stereotipo della razza è così difficile da estirpare. Alla stessa comunità scientifica va attribuita una parte di responsabilità, ormai ampiamente documentata almeno per quel che riguarda le generazioni passate. Permane però una contraddizione tra l’evoluzione biologica che premia la variabilità e la diversità (la sola che ci permette la sopravvivenza come specie) e l’evoluzione sociale che invece premia l’omogeneità quale garanzia di conservazione della struttura sociale esistente, la possibilità di identificarsi in un gruppo di uguali per potersi meglio riconoscere rispetto ad altri gruppi.
In questa tensione dialettica gli studiosi di genetica sono chiamati a dare il loro contributo almeno per sgombrare il campo da illazioni pseudo-scientifiche e per chiamare le cose con il loro nome. Nel 1959 il grande filologo Gianfranco Contini individuò brillantemente l’etimologia della parola razza nel francese antico haraz, «allevamento di cavalli, deposito di stalloni» di cui è rimasta in italiano l’espressione «cavallo di razza». Sarebbe auspicabile restituire il termine alla sua etimologia originaria: la razza si addice all’allevamento di animali selezionati, e non all’uomo, su cui influisce la selezione naturale ma non quella artificiale.
Se è vero che la comunità scientifica è oggi concorde nel rifiutare la suddivisione della nostra specie in «razze» basata su falsi argomenti biologici, è altrettanto vero che il razzismo esiste, e che negare il suo fondamento scientifico non è un’arma efficace per combatterlo. Per lo più, le definizioni di «razzismo» si basano sulla diversità biologica (che effettivamente esiste) per giustificare una gerarchia tra gli individui che potrebbe avere una origine addirittura genetica, cioè innata. Da un punto di vista biologico, oggi sappiamo troppo poco sulla determinazione genetica del comportamento umano per indicare i meccanismi biologici e culturali che ne influenzano le regole. Da un punto di vista sociale, questa definizione di razzismo mette in luce la contraddizione tra il concetto di uguaglianza quale principio universale, proclamato come non discriminatorio dalla maggior parte delle Costituzioni moderne (è il caso dell’ art. 3 della nostra Costituzione) e la realtà della diversità: di qui l’ aspirazione a veder riconosciuto il diritto di ognuno alla differenza sia biologica sia culturale. In realtà, come è stato sottolineato da Bobbio, la contraddizione sta non tanto nell’opposizione uguaglianza-diversità (dal momento che+ l’ opposto di uguaglianza è disuguaglianza), quanto: a) nella difficoltà di rispondere alla domanda: «Chi sono gli uguali, chi sono i diversi?» e b) nel ragionamento che se gli uomini sono uguali secondo certi criteri, e diversi secondo altri, ne consegue che gli uomini non sono tutti uguali ma non sono nemmeno tutti diversi.

L’EQUIVOCO

L’ideologia del razzismo sta subendo metamorfosi tali che oggi non è più sufficiente riaffermare che le razze non esistono e quindi che il razzismo non ha alcuna ragione di sopravvivere. Paradossalmente, una delle rappresentazioni attuali dell’ ideologia razzista consiste nel prendere a prestito dalla biologia l’esperienza della diversità biologica per riproporla in termini assoluti sul terreno molto più infido della diversità culturale. Le «razze» diverse non sono più necessarie, anzi è proprio dalla biologia che abbiamo imparato che siamo tutti diversi. Ma se siamo tutti diversi biologicamente, lo saremo anche culturalmente: siamo quindi legittimati a conservare la nostra identità culturale perché «naturale», e quindi a lottare perché non venga inquinata da persone o gruppi che è bene conservino a loro volta la loro identità culturale. Da un pregiudizio (tutti gli uomini sono distribuiti in gruppi biologicamente omogenei al loro interno, ma sono così diversi l’uno dall’altro da legittimare rapporti di disuguaglianza sociale e politica) si cade nel pregiudizio simmetrico (essendo tutti biologicamente diversi, le nostre diverse culture legittimano il mantenimento delle nostre diverse identità, le quali per natura non sono assimilabili). Il diritto alla differenza, legittimato da alcuni risultati dell’antropologia culturale di tipo strutturalista, si è trasformato in teorizzazioni fondate sui postulati della irriducibilità e dell’assoluta separazione delle culture, delle tradizioni, dei costumi locali. Alla luce di questo principio di frammentazione radicale, l’idea che certi individui o gruppi non sono «assimilabili» viene progressivamente strumentalizzata in forme di eterofobia e xenofobia: è così che il rifiuto del migrante trova la sua mistificazione culturale senza bisogno di ricorrere al razzismo. Alla radice del problema del razzismo sta la risposta a un problema più fondamentale che la scienza da sola non può risolvere: dobbiamo augurarci una società culturalmente omogenea oppure una società multiculturale? La natura, e forse anche la cultura, ci hanno indicato che le strategie miste forniscono maggiori vantaggi. Se è vero che entrambe le affermazioni: 1) tutti gli individui sono uguali 2) tutti gli individui sono diversi, conducono a pregiudizi cui può attingere l’ideologia razzista, è compito di chi si occupa di scienze biologiche, sociali e politiche indicare le armi educative con cui combattere tali pregiudizi. Ricordiamo sempre che né il comportamento razzista è la necessaria conseguenza di un pregiudizio razzista, né il pregiudizio razzista è la necessaria conseguenza dell’ esistenza o meno di «razze» umane geneticamente indefinibili.

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