Perché “Il Principe” è diventato la bibbia degli spin doctor
Giancarlo Bosetti
Repubblica 22.1.13
Mentre da ogni parte si invoca il ritorno della politica per fronteggiare le sfide globali, dalla crisi economica all’effetto serra, i cinquecento anni del Principe di Machiavelli sono un’eccellente occasione per riaccendere la secolare disputa sulla “vera” essenza del suo pensiero, quella disputa che — diceva Croce — non si esaurirà mai. In attesa di una mostra, il prossimo autunno al Vittoriano, di una nuova edizione critica dell’opera (a cura di Giorgio Inglese) e di una Enciclopedia machiavelliana Treccani nel 2015 (a cura di Gennaro Sasso), bisognerà comunque rassegnarsi all’idea che l’aggettivo “machiavellico” non diventerà mai un complimento. Ma certo Machiavelli non è solo il crudo messaggio del realismo politico.
C’è ben altro. La grandezza del Principe sta nella scoperta, ben vista da Gramsci nelle sue Noterelle dal carcere, e raccontata da Isaiah Berlin in uno stile più drammatico: i conflitti più difficili non sono quelli tra il vizio e la virtù, ma tra due tipi diversi di virtù, quella che eleva l’essere umano alle altezze della morale e della santità e quella che lo eleva alle altezze delle grandi costruzioni politiche, principati, imperi (o democrazie). Per Gramsci quella contenuta in nuce nelle dottrine del Machiavelli era una grande «rivoluzione intellettuale e morale»: l’autonomia della politica. Per Berlin è un terremoto che fa crollare lo schema monista della philosophia perennis; non esiste più una sola risposta vera a tutte le nostre domande, entriamo nell’era del pluralismo; e prendiamo atto di una separazione definitiva tra la salvezza nell’al di qua e quella nell’al di là, tra due tipi di vita che sono incompatibili.
Chi sta oggi sulle orme del Machiavelli? Per rispondere bisogna prima di tutto sapere che la politica, fatta e pensata, era la materia prima di Niccolò, era lei che alimentava le sue notti all’Albergaccio, era lei il contenuto delle sue conversazioni «nelle antique corti delli antiqui uomini», era «quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui», di cui alla celebre lettera al Vettori. Ed era la politica in atto della costruzione degli Stati, non pura téchne al servizio dei tiranni. Si sapeva muovere tra Roma, Parigi, Venezia e la Germania e il suo policy- making era insieme cura delle relazioni internazionali, degli armamenti, del consenso. Ma aveva sullo sfondo anche un disegno unificante, nel quale si intravede l’impossibile progetto dell’unità italiana. C’era in lui di che alimentare l’idea del politicus come il virtuoso di una virtù totale e autonoma, quella stessa per cui, tre secoli e mezzo dopo, Napoleone III avrebbe definito Cavour, il «sardo Machiavelli».
Per trovare i Machiavelli di oggi, dovremmo cominciare dalla differenza e varietà dei compiti in un’epoca in cui gli Stati sono fatti (con qualche eccezione lacerante), ma stanno perdendo la presa sulle rispettive società nazionali, mentre i sistemi democratici scompongono il mestiere del politico in due distinte professioni: quella di vincere le elezioni e quella di governare. Difficile unificarle: se gli italiani possono tenere cattedra sul tema da due decenni, Obama lo ha imparato a sue spese. Per condurre la campagna del 2008 (capolavoro assoluto di arte politica) si è servito di David Axelrod, che ha poi parcheggiato alla Casa Bianca come consulente, ma lo ha rimesso nel ruolo di strategist nel 2012 (secondo capolavoro). Nello stesso modo Bush aveva fatto con Karl Rove, il duro dei “lavori sporchi” che aveva intrecciato la campagna per la rielezione con la guerra in Iraq, gli spot elettorali con le portaerei e i top gun.
Una volta al governo, poi, al Principe democratico serve un complesso ventaglio di politiche alle quali lavorano istituzioni e think-tanks, non geni solitari. Il segretario fiorentino se la dovrebbe vedere oggi con i sondaggi, ma era un vero Segretario di Stato (nel senso americano di ministro degli Esteri) e oggi starebbe sulla scena internazionale. Allora il problema del tempo era per lui l’alleanza coi francesi per piegare Pisa, oggi sarebbe quello delle alleanze per chiudere la crisi siriana e pacificare il Medio Oriente. Pane per i denti di un Machiavelli è la discussione di questi giorni sulla crisi cubana dei missili nel 1962: è vero come sostiene Graham Allison (Foreign Affairs) che il successo di J. F. Kennedy (un errore poteva costare 100 milioni di morti in un conflitto nucleare) dipese dalla forza della sua minaccia nucleare contro Kruscev? O invece fu essenzialmente il risultato dell’accordo segreto sul ritiro dei missili americani dalla Turchia, come sostiene James Nathan? La discussione storica sulla crisi che segnò la fine della fase ascendente del comunismo contiene fattori — come piaceva scovarne al Machiavelli nelle sue conversazioni con il passato — che le ragioni delle vittorie e dei fallimenti, e gettano luce sulle decisioni da prendere nel presente. Il dibattito su Cuba si riflette infatti sull’Iran di oggi: per disinnescare il rischio nucleare funzionerà meglio la minaccia o il negoziato?
L’opera di Ser Niccolò voleva stabilire «come si acquistono» e «si mantengono» i principati (e «perché e’ si perdono»). Oggi lo vorremmo vedere all’opera, anziché su Cesare Borgia e Papa Giulio II, su come e perché il “principato” di Gheddafi sia durato quarantadue anni, quello di Ben Ali venticinque, e come e perché «e’ si son perduti». E ragionando su di loro, e su Assad a Damasco, si potrebbero ripescare quei passaggi del Principe che colpirono il machiavellico Lenin, quando scrisse in una direttiva, segreta, a Molotov, nel 1922: «Un intelligente scrittore di questioni statali » sostiene che «se per attuare un certo fine politico è necessario commettere una serie di crudeltà, bisogna commetterle nel modo più energico e nel più breve termine poiché una prolungata applicazione di crudeltà non è tollerata dalle masse popolari ». Parlava naturalmente di Machiavelli senza nominarlo. Anche al “realista” Hegel (la storia «calpesta più di un piccolo fiore ») piaceva molto questo libro. Ma c’è modo e modo di “calpestare fiori” e le prolungate crudeltà fanno saltare i dittatori, specie in tempi di digital media e smartphone.
Qualcuno cercherà gli eredi di Machiavelli tra i numerosi “consiglieri del principe” o spin-doctor che affiancano i leader politici: dai più famosi Mandelson, Campbell, Gould della leggendaria squadra di Tony Blair, fino agli eredi nostrani del mestiere che fu inventato in America da Edward Bernays, e cioè i Casaleggio, i Gori, e le più defilate agenzie che stanno dietro a singoli candidati. Ma quello è solo un segmento dell’arte che si è nel tempo diversificata. Il segmento maggiore dell’eredità professionale è da cercare nella lista dei veri colleghi di Machiavelli, i segretari di Stato americani da Thomas Jefferson (poi presidente) a George Marshall, da Henry Kissinger a Hillary Clinton.
Quanto può la forza che incute timore? E quanto l’influenza di un potere che si fa amare? Di questo si occuperebbe oggi il Machiavelli. Sospetto che avrebbe insistito più sulla forza: tra l’essere amati e l’essere temuti, dovendosi scegliere, suggeriva ai principi la seconda via, data la natura degli uomini. Ma avrebbe certo apprezzato che i più attenti continuatori della sua scuola di pensiero si trovino alla John Kennedy School of Government (Harvard), dove Joseph Nye è noto per l’uso che fa del Principe nelle sue lezioni e per sostenere l’idea del “soft power” (ascendente culturale) contrapposta allo “hard power” (coercizione) e per aver infine perorato, proprio commentando quelle pagine di cinquecento anni fa, la necessità di un equilibrato mix tra i due, ovvero lo “smart power”, il potere intelligente che trae beneficio da entrambe le risorse: armi, alleanze, e una rete di istituzioni che accrescono influenza, legittimazione e stabilità del principato. Del resto la Firenze tra Quattrocento e Cinquecento si può ben paragonare alla maggiore potenza di oggi. Esercitarsi con una vera Segreteria di Stato europea è purtroppo fuori della nostra portata. Ci prova, con ardimento, talvolta Bernard-Henry Levi, prima sulla Libia poi sul Mali, con molte ragioni, e sospingendo all’impresa armata prima Sarkozy poi Hollande, ma l’allievo di Sartre preferisce citare a sostegno delle “guerre giuste” Grozio e San Tommaso. Il Principe rimane troppo scopertamente realista sull’ordine che si stabilisce con la violenza delle armi, troppo “machiavellico”.
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