sabato 19 gennaio 2013

I ribelli della rete


CONDIVISIONE E LIBERTÀ ECCO LA LORO FILOSOFIA

RICCARDO LUNA

"La Repubblica", 18 GENNAIO 2013 

Un giorno lo capiremo e quel giorno ci decideremo finalmente a chiedere scusa a quelli come Aaron Swartz: gli hacker. E se il solo leggere una cosa così ci appare assurdo, questo dimostra l’enormità dell’equivoco collettivo che è stato generato negli ultimi trent’anni. Abbiamo fatto passare gli hacker per delinquenti. Criminali. Soggetti pericolosi per gli individui e persino per la pace mondiale. 
E’ vero, qualche hacker ha effettivamente commesso delitti, fatto danni, creato disagi, talvolta grandi disagi. Ma è come se avessimo preso una piazza piena di pacifici manifestanti e gli avessimo dato dei “terroristi” perché fra loro ce n’era uno. Gli hacker sono un’altra cosa: gli hacker vogliono cambiare il mondo per renderlo un posto migliore e sono convinti che un computer connesso a Internet sia la strada ideale per farlo.
Era un hacker il giovane Bill Gates quando nel 1975 scrisse BASIC, il primo programma che avrebbe dovuto rendere i personal computer usabili da tutti. Era un hacker (e lo è ancora) Steven “Woz” Wozniak, che fece praticamente a mano l’Apple II su cui il suo amico e socio Steve Jobs nel 1977 ha costruito un’azienda diventata impero. Si sente un hacker e ne va fiero persino Mark Zuckerberg al punto che quando a Facebook festeggiano qualcosa invece di sbronzarsi fanno una cosa che ci chiama “hackaton”, una maratona di hacking in cui per ore e ore si sta lì a scrivere righe di codice sperando che il prodotto finale in qualche modo ci cambi la vita. Ed erano hacker i primi anonimi volontari che sono intervenuti dopo che gli uragani Katrina e Sandy avevano colpito New Orleans e New York.
Insomma, non si può capire la rivoluzione dei computer in cui siamo immersi se non si capisce chi sono davvero gli hacker. Non si può capire, semplicemente perché non ci sarebbe stata. Ventinove anni fa un grande giornalista americano, Steven Levy, pubblicò un librone che ne raccontava le gesta, che risalgono addirittura agli anni ‘50 e proprio al Massachusetts Institute of Technology di Boston finito nella bufera per il suicidio di Swartz. Qui dei giovani ricercatori capirono per primi che un computer poteva servire a scrivere anche testi e fecero quello farebbe ogni hacker: scrissero loro stessi, non per soldi ma per il puro piacere di farlo, un programma che consentiva di farlo. Si chiamava Expensive Typwriter, macchina da scrivere costosa” (in effetti allora quella macchina costava 120 mila dollari).
Ma quello che davvero hanno in comune gli hacker, il dono più importante che ci hanno fatto e che ci fanno mentre involontariamente li denigriamo, non è un modello di computer o un software per lavorare meglio, ma una filosofia. L’etica hacker, ha scritto la giovane antropologa neozelandese Gabriella Coleman nel suo attualissimo report dal mondo hacker “Coding Freedom”, ci parla di valori come condivisione, apertura, delocalizzazione e di un approccio per cui abbiamo il dovere di mettere le mani sui computer per migliorarli e migliorare così il mondo intero. E per far ciò una cosa deve avvenire preliminarmente: l’informazione deve essere libera. Per questi valori è morto Aaron Swartz.


VITTORIO ZUCCONI

Gli hacktivisti

MA GLI HACKER LAVORANO PER NOI O CONTRO DI NOI? È la quotidiana lotta tra privacy e trasparenza. Il confine tra creatività e illegalità rimane sottile. Resta una domanda di fondo: vuole abbattere ogni forma di protezione. Attivisti e cyber geni, militanti e guru. 

WASHINGTON. La battaglia del web, fra gli hacker e il sistema, è vecchia in America di almeno due secoli. Ci riporta al 1804, quando due uomini chiamati Lewis e Clark partirono su ordine del presidente Jefferson per esplorare e mappare l’oceano di terra americano. Percorsero duemila chilometri e la loro più grande sorpresa fu vedere che in quell’immenso territorio, dai Grandi Laghi fino al Pacifico, non c’erano un solo steccato, un muretto, un cancello, una barriera, qualcosa che definisse e quindi escludesse, il territorio.
Né Jefferson né i due viaggiatori avrebbero potuto immaginare che la loro avventura nel continente davvero nuovo avrebbe prefigurato quello che oggi sta accadendo nella Terra Nova della Rete. Dove tutto sembrava appartenere a tutti, gli stessi esploratori si trasformavano in colonizzatori e in proprietari.
Chi aveva sognato l’accessibilità all’intero territorio, chi credeva di potervi galoppare senza barriere, soffriva la parcellizzazione della terra come una negazione della libertà americana.
E qui, nel classico duello fra il rancher, il contadino/allevatore che cinta il proprio campo, e gli indiani prima e i cowboy più tardi che rivendicavano il diritto di transitare a piacere, che si riproduce la quotidiana, silenziosa, furibonda lotta fra un World Wide Web sempre meno vergine e coloro che vogliono hack, abbattere con l’accetta, spalancarla. Come individui, nella solitudine della propria missione od ormai sempre più organizzati in gruppi di hacktivist, di attivisti.
Nel discorso collettivo e nel lessico semplicistico dei media dove ancora sopravvivono formule ridicole come «il popolo della Rete» descritto come una entità a parte quando tutti siamo ormai popolo della Rete con una semplice mail o una fattura online, espressioni come hacker, cracker, hacktivist tendono ad acquisire una connotazione negativa. Chi apre con il grimaldello virtuale di codici, virus, “vermi”, phishing la serratura di banche dati, di siti protetti, di librerie riservate ad abbonati, di casseforti di banche, «è semplicemente un ladro, proprio come colui che usa una chiave universale o un piede di porco». Così aveva detto il procuratore del Massachusetts, Carmen Ortiz chiedendo l’incriminazione di Aaaron Swartz, il ragazzo prodigio che era riuscito a scardinare la cassaforte di Jstor, il fondo delle pubblicazioni accademiche, delle tesi, dei journal, per metterle a disposizione di tutti. E che ha chiuso la propria vita ucciso dal male di cui soffriva, la depressione acuta e acuita dalla angoscia di una battaglia che forse intuiva perdente.
La sua fine, che ha addolorato e toccato come una perdita personale tutti coloro che ne avevano amato non soltanto la genialità informatica, ma anche l’eleganza dei codici che componeva, la sua totale assenza d’interessi finanziari personali a differenza di altri cyber geni o presunti tali passati alla cassa come Jobs, Gates, Zuckerberg, o creatori di Twitter destinato presto all’esordio in Borsa, ha dunque inevitabilmente riscoperchiato il calderone del witches’ brew.
Il brodo di streghe della battaglia per la libertà assoluta contro la progressiva privatizzazione della Rete. Il New York Times ha affidato a un filosofo e linguista della Northwestern University, Peter Ludlow, il compito di interpretare linguisticamente l’uso di questa parola hacker e del nuovo hacktivism, l’hackeraggio organizzato e militante di gruppi come Anonymous, concludendo, con filosofico distacco, che sono i grandi media che piantano nella coscienza del pubblico le associazioni negative con queste formule.
Ma se i grandi media, i siti commerciali, i “for profit” hanno evidente interesse a proteggere i propri nuovi territori recintati, le notizie di penetrazioni di massa avvenute in database di carte di credito, di profili e attività private attraverso i social network, di archivi federali contenenti il sacro codice fiscale, di siti militari segreti, addirittura della setta Scientology, alimentano oggettivamente gli equivoci e le paure.
Tutti noi, “popolo della Rete”, vorremmo che tutte le porte fossero aperte, che i segreti di stato fossero scoperchiati, nella certezza aprioristica che essi nascondano ogni sorta di nefandezze e che la promessa di una nuova Biblioteca di Alessandria fosse reale. Dunque pubblica e non a pagamento, come quello Jstor che ossessionava Swartz perché raccoglieva materiale universitario già pagato con le tasse ma risottoposto a tariffa.
Ma noi stessi pretendiamo che i nostri dati, abitudini, avventure in Rete, conti finanziari usati nel boom dell’e-commerce, degli acquisti online, non siano esposti sulla piazza informatica.
È la contraddizione di fondo, e per ora insoluta, fra privacy e trasparenza, fra diritti a sapere e diritto a nascondere. Per la galassia degli “hacktivist”, il libero accesso a tutto è un diritto civile fondamentale che non può essere negato o limitato Neppure il mondo degli hacker, o dei cracker, parola che richiama la figura del safecracker, colui che cracca una cassaforte, ha risolto la contraddizione di fondo fra accesso e negazione. La stessa Anonymous pretende di restare appunto anonima, dunque negando a chi l’attacca il diritto che vuole applicare agli altri. Assange e il suo WikiLeaks, che pure vengono difesi come “cappelli bianchi” (opposti ai “cappelli neri” di chi apre le casseforti per lucro o per intenzioni criminali) della trasparenza e della accountability, della responsabilità, non sono visti come hacktivist puri, essendo più distributori passivi e coraggiosi di “fughe” generate altrove, che esploratori diretti di territori proibiti. Il che non trattenne gli anonimi da un assalto di rappresaglia dopo l’arresto di Assange. Swartz era un esempio venerato e ora rimpianto di “cappello bianco”, di genio che metteva la propria prodigiosa capacità di composizione e di lavoro, non diversa dal talento naturale e poi tecnico di un grande musicista davanti alla tastiera, non per guadagni, ma per fede profonda nella libertà universale del Web. Non aveva fatto soldi, pur avendo contribuito a Reddit, uno dei massimi strumenti per la lettura e per l’offerta di materiale e a Rss, il sistema preziosissimo di diffusione automatica di contenuti e notizie.
Naturalmente, i grandi provider di reti wifi e telefoniche, come la Verizon americana, conducono una guerra quotidiana tecnologica, propagandistica e psicologica, contro i gruppi e i singoli che vogliono sfondare i cancelli, quali che siano i cappelli che indossano e le intenzioni che hanno. La Verizon, colosso della fibra ottica, del 4G, della Adsl negli Usa annuncia: «Il 2011 — ha scritto la società di telefonia — è stato l’anno nel quale i cyber attivisti, gli hacktivist hanno superato i cyber criminali nella penetrazione illegale. Dei 174 milioni di dati illegalmente scaricati, 100 milioni sono stati rubati dagli attivisti. Improvvisamente, le zone grigie fra hackeraggio bianco, a fin di bene, e hackeraggio nero, con scopi criminali, spariscono. Sottrarre dati che non ti appartengono non è mai ok».
Ma quello che cifre e le statistiche di Verizon non dicono è l’intento e la finalità di quei dati sottratti. Gli hacktivist “ideologicamente motivati” spinti cioè da un’idea di Rete e di libertà, da una lotta che spesso si intreccia con battaglie ecologiste, antinucleari, anticapitaliste, sono cosa ben diversa dai cybercriminali che scassinano le casseforti di banche per utilizzare i risultati per sfruttare le vittime. Il colpo grosso dei gruppi come Anonymous nel 2011 fu svaligiare la banca dati di un istituto di credito che aveva ingaggiato una società specializzata nella sicurezza informatica promettendo di annientare proprio Anonymous. Fu dunque una rappresaglia dimostrativa, che non produsse danni, altro che alla faccia della società antihacking.
Una soluzione definitiva, un trattato di pace che portino alla convivenza e che risolvano la dialettica universale fra diritti di proprietà e diritti di accesso, fra l’odiato copyright sulle proprietà intellettuali, la pirateria, non è in vista e forse neppure possibile. Ogni tentativo di “legislare” un conflitto fondamentale come questo, eppure liquido e spesso impossibile da definire, ha portato a deformi normative che risultano inapplicabili nella pratica o sfacciatamente liberticide, alla maniera di Cina o Iran. Ma anche l’ideologia della Prateria senza steccati, come quella attraversata da Lewis e Clark nel 1804 è, nel caso degli hacktivist utopica e in parte ingiusta. La difesa dei diritti dei creatori di contenuti non è prepotenza, ma premessa perché la creazione avvenga. Tutto costa, a dispetto del mito della Rete gratis che gratis non è affatto, e dunque tutto deve essere remunerato per sostenere i costi. Ma anche l’istinto opposto è altrettanto forte: dove si chiude una porta, qualcuno cercherà di aprirla. La domanda resta: gli hacker lavorano per noi o contro di noi?


I ribelli della rete

ANGELO AQUARO

NEW YORK. Ma il povero Aaron Swartz si poteva salvare o no? Benjamin Nugent tira un sospiro così lungo che t’immagini stia ripassando come in un film tutta la vita: l’infanzia difficile col fardello dell’autismo diagnosticato per sbaglio, l’adolescenza di smanettone tra computer e “anime” made in Japan, il riscatto nella sua prima band, il debutto da giornalista e saggista, fino a quella Storia naturale del nerd che l’ha reso un piccolo cult. A fine mese qui negli Usa esce il suo primo romanzo, Good Kids, una storia d’amore tra due ragazzi figli dei figli del baby boom, una storia che lui stesso riassume cosi: «Come fai a ribellarti quando i ribelli sono i tuoi genitori ». Ma adesso è la storia di un altro ribelle e di un altro nerd — I ragazzi con gli occhiali— a tormentarlo.
Si poteva salvare?
«Mi ha fatto subito venire alla mente David Foster Wallace. E non solo perché era stato lo stesso Aaron a riferirsi a lui nel suo blog».
Aveva anche suggerito una propria conclusione al quel capolavoro che è Infinite Jest.
«Aaron era una persona fantastica. L’unica che conosco che potesse frequentare il mondo letterario e quello tech. Due mondi che tendono incredibilmente a ignorarsi: quelli che amano crogiolarsi nei testi lunghissimi e quelli che il testo scritto ormai è morto. Aaron era un genio dei computer ma lavorava a un magazine letterario».
Perché pensa a Foster Wallace? Oltre al destino tragico che li accomuna.
«Viviamo in un’epoca che per un certo tipo di intelligenze, intelligenze più suscettibili, può condurre a reazioni bipolari, a reazioni maniaco-depressive. Per chi è sempre assetato di nuovo, l’era di Internet può trascinare alla mania: e condurre alla depressione».
Sta parlando di una correlazione tra Internet e depressione?
«Sto solo speculando sulle similarità di due personaggi eccezionali. Dico però che lo straordinario mondo di informazioni aperto da Internet ha una potenzialità liberante enorme. Ma al contrario può anche deprimere. Internet può dare un potere immenso a chi non dovrebbe averlo...».
Con quali conseguenze?
«Guardate ai percorsi intellettuali. Aaron diventa sempre più prolifico: è ossessionato dall’idea dell’utilizzo positivo di Internet e si scontra con una cultura che non è ancora pronta. È la stessa ossessione che guida Foster Wallace alla ricerca della scrittura perfetta».
Non c’è via di uscita?
«Non voglio generalizzare. Ripeto: stiamo parlando di casi eccezionali. E nel caso di Aaron stiamo parlando di un ragazzo che rischiava 35 anni di galera. Credo che alla fine abbia contato più questo che l’attaccamento ai computer, no?».
C’è chi accusa la magistratura Usa e il Mit, l’istituto utilizzato per scaricare i file illegali. Aaron rischiava la prigione per questo. La sua famiglia ha parlato di persecuzione.
«Io non voglio accusare nessuno. Però dalla forza giudiziaria messa in campo è evidente che si sia cercato di dare risonanza pubblica al caso: volevano fare di Aaron Swartz un esempio per tutti».
Il suo sacrificio servirà a ristabilre i confini di Internet? Legale e illegale...
«È una questione enorme. Certo è ridicolo che si possa rischiare di essere buttati in galera solo per aver scaricato dei file: è assurdo e sproporzionato. Però la proprietà intellettuale esiste e va rispettata. Pensate a quanti ragazzi dell’età di Aaron salgono su un pullmino e se ne vanno in giro a suonare rock’n’roll: ma non si possono mantenere perché c’è qualcuno che pensa che non pagare la musica è ok».
Lei stesso ha raccontato sul  New York Times l’infanzia difficile, la depressione.
«Abbiamo tutti provato qualche forma di depressione ».
Ma c’è qualcosa che possiamo fare? C’è una cura? Computer e Internet circondano tutti noi. Ormai siamo tutti nerd: siamo tutti smanettoni.
«Se metti il tuo libro davanti a tutto, come Foster Wallace ha fatto — se metti il tuo attivismo davanti a tutto, come Aaron Swartz ha fatto: col tempo diventa un peso sempre duro da sopportare. Sì, inseguire la tua passione di fonte a tutto e tutti comporta inevitabilmente sacrifici. Fino all’ultimo».

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