giovedì 17 gennaio 2013

La ricerca della felicità


Osare la felicità, idea rivoluzionaria
La lectio che lo storico McMahon presenterà venerdì a Roma

Si apre domani all’Auditorium il Festival delle Scienze quest’anno dedicato al tema della felicità
Un concetto relativamente moderno dal punto di vista della storia 
e che iniziò a prendere piede nell’800

Darrin McMahon

"L’Unità", 16 gennaio 2013

INIZIERÒ LE MIE OSSERVAZIONI FACENDO UN'IPOTESI. IPOTIZZO CHE LA MAGGIOR PARTE DI NOI (SE NON TUTTI NOI) presenti in questa sala, voglia essere felice, e anzi ritenga che, da un certo punto di vista, noi abbiamo il diritto di essere felici. La maggior parte di noi crede, cioè, che la felicità sia un'aspettativa umana perfettamente ragionevole, qualcosa che tutti gli esseri umani dovrebbero raggiungere. Noi riteniamo dunque che gli uomini e le donne non solo hanno il diritto di perseguire la felicità, ma che dovrebbero essere realmente in grado di trovarla.
Penso che queste affermazioni suonino scontate ad orecchie moderne, specialmente in Europa e in Nord America, ma sempre più anche in molte altre regioni del mondo. E tuttavia uno dei punti che vorrei riuscire a farvi comprendere oggi è che quest'idea, quest'assunzione che la felicità sia una condizione umana naturale che «felici» è il modo in cui gli esseri umani dovrebbero essere è relativamente recente: il prodotto di un drastico spostamento delle aspettative umane che si è prodotto a partire dal diciottesimo secolo. Uno spostamento che può ben essere chiamato «rivoluzione».

LA GIOIA ANCHE IN TERRA
(...) Fu esattamente in questo periodo tra il tardo Settecento e l'Ottocento che uomini e donne occidentali osarono pensare alla felicità come qualcosa di più che un dono divino o una ricompensa ultraterrena, meno casuale della fortuna, meno elevata di una vita di perfetta virtù o di un sogno millenario. Per la prima volta nella storia dell'uomo, un numero relativamente grande di uomini e donne fu messo di fronte alla nuova prospettiva di non dover soffrire come per un'infallibile legge dell'universo, di potere (e dovere) aspettarsi la felicità intesa come sentirsi bene e provare piacere come un diritto dell'esistenza (e questo è in sé parte del cambiamento: il passaggio dal ritenere la felicità come misura della vita intera, o di tutta l'eternità, al ritenerla un tipo di sentimento, uno stato emotivo temporaneo).
Le cause di questa importante trasformazione sono molte. Spaziano dagli sviluppi interni della tradizione cristiana, che diede una maggiore approvazione al godimento terreno e levò enfasi all'impatto del peccato originale, ai nuovi comportamenti secolari nei confronti del piacere, dalla nascita della cultura del consumo, capace di offrire una gran varietà di oggetti di lusso a gruppi di popolazione sempre più vasti, alle nuove scoperte scientifiche che fecero apparire il mondo e la società umana molto più sotto il nostro dominio e controllo. Queste cause sono interessanti di per sé, ma ciò che io vorrei mettere a fuoco non sono tanto le cause quanto gli effetti. Essendo liberi di pensare alla felicità come a qualcos'altro rispetto alla lotta superiore di pochi, donne e uomini accordarono alla felicità sulla Terra il posto privilegiato che avevano un tempo dato alla felicità nell’aldilà. «Le Paradis est ou je suis», dichiara Voltaire all'inizio del diciottesimo secolo: «Il paradiso è dove sono io». Non nel passato, non nel futuro, ma qui ed ora. In questo stesso secolo l’Encyclopedie, la Bibbia dell’Illuminismo europeo, dichiara nella voce «Felicità» che ognuno ha il diritto di essere felice. Ed è in questo stesso secolo che Thomas Jefferson dichiara, nella Dichiarazione d'Indipendenza Americana, che tutti gli uomini hanno il diritto di perseguire la felicità, mentre il suo collega e amico George Mason, nella Dichiarazione dei Diritti dello Stato della Virginia, parla della ricerca e del conseguimento della felicità come una dote e diritto naturale.
Alla fine del secolo, questi sentimenti erano divenuti qualcosa di più che frasi felici: «La felicità è in realtà il solo oggetto della legislazione che abbia valore intrinseco», dichiara l'utilitarista inglese Joseph Priestly, e facendo eco alla rivendicazione di Voltaire, in una lettera del 1729 sentenziava che «la sola e unica preoccupazione è di essere felici». «Le bonheur est une idée-neuve en Europe» dichiara St. Just durante la rivoluzione francese. La felicità è un'idea nuova in Europa.
Ora vorrei sottolineare come questa nuova dottrina fosse liberatoria sotto vari aspetti. Cambiò il presupposto che la sofferenza fosse la nostra condizione naturale e sostenne che non dovremmo scusarci per i nostri piaceri qui sulla terra. Al contrario, dovremmo lavorare per aumentarli. Non era più un peccato godere dei nostri corpi. Non era ingordigia ed avidità lavorare per migliorare i nostri standard di vita. Non era un segno di lussuria e depravazione perseguire il piacere della carne. Il piacere è un bene, il dolore un male. Dovremmo massimizzare l'uno e minimizzare l'altro, cedendo il piacere più grande in cambio di un numero di piaceri maggiore possibile.
Perciò questo nuovo orientamento nei confronti della felicità era liberatorio sotto molti aspetti e, sul lungo periodo, ebbe successo. Tanto che il filosofo contemporaneo francese Pascal Bruckner può spingersi fino al punto di osservare che (la felicità) è divenuta «l'unico orizzonte delle nostre moderne democrazie». L'unico fine per il quale possiamo oggi immaginare di lavorare. A dire il vero, il trionfo di questa visione non fu facile né automatico c'è una lunga strada tra l’annuncio della più grande felicità possibile per il maggior numero di persone nel XVIII secolo e le nostre speranze di oggi su questi stessi temi, sono sicuro di non doverlo ricordare.
La conquista è stata, ovviamente, un processo graduale ed imperfetto. Se voi foste per esempio un africano portato nel nuovo mondo come schiavo, una contadina che vive al limite della sussistenza, un ebreo nel ghetto di fronte alla minaccia di un pogrom, o un operaio brutalizzato dall'industrializzazione, l'idea che dovreste essere felici potrebbe sembrare uno scherzo crudele. E tuttavia sebbene lentamente, e sebbene in maniera imperfetta, la promessa, una volta estesa, si è dimostrata difficile da contenere o negare.

CAMBIO DI PROSPETTIVA
(...) Nel XIX secolo, troviamo i cittadini americani avviare azioni legali contro i governi statali e federali per aver impedito loro il perseguimento della felicità! E sempre nel XIX secolo troviamo socialisti utopisti e marxisti che lavorano per adempiere alle promesse emanate in Francia dalla Costituzione Giacobina del 1793, il cui primo articolo recita: «Le but de la société est le bonheur». Lo scopo della società è la felicità comune. La felicità, in altre parole, divenne nel mondo post-XVIII secolo un problema, un problema da risolvere, come non era mai stata prima.
Pensate a come è differente questa prospettiva rispetto al passato. Se tu puoi essere felice se questa è veramente la maniera in cui si pensa che dovresti essere cosa succede se non lo sei? Significa che c'è qualcosa di sbagliato in te? Che sei malato, che hai fallito, che gli altri ti hanno fato fallire, impedendoti di vivere come dovresti?
Nel Vecchio Mondo, dove la felicità non era considerata probabile o possibile per la grande maggioranza della gente, dove soffrire era la norma e la felicità una sorta di conquista straordinaria e sovraumana, non ci si doveva preoccupare della felicità nella stessa maniera. E se questo era un problema di per sé, contemporaneamente procurava una certa consolazione. La sofferenza era qualcosa che gli esseri umani dovevano aspettarsi. Noi moderni, al contrario, ci preoccupiamo quando non siamo contenti, e questa è una sofferenza peculiare del nostro tempo. Io la chiamo «l'infelicità del non essere felici».
La colpa, la rabbia, il risentimento che proviamo quando riteniamo di essere stati privati di un nostro diritto naturale, o peggio, di aver fallito, ci impedisce di ottenere la felicità che tutti gli esseri umani dovrebbero conoscere. «Cosa c'è di sbagliato in me – pensiamo Perché non sono felice?». E ci biasimiamo, o colpevolizziamo gli altri, per non sentirci come dovremmo sentirci.
(Traduzione di Edoardo Girardi)

Venerdì, 18 gennaio, Darrin McMahon terrà una Lectio Magistralis sulla Storia della felicità. Interverrà anche Ben Weider, Professor of History alla Florida State University (Usa) Introdurrà Fulvia de Luise, docente di Storia della Filosofia Antica all’Università di Trento


Happiness is a butterfly, which, when pursued, is always beyond our grasp, but which, if you will sit down quietly, may alight upon you. 
Nathaniel Hawthorne

"Per qualcuno è questione di chimica, un fatto di neuroni. Per altri è l’appagamento di un bisogno, fisico, biologico. Tensione trascendente, o semplice sinapsi. Sete di verità o paradiso artificiale: raggiunto con farmaci, droghe, sesso. Fonte di paradossi, squilibrata, relativa. La ricerca (scientifica) della felicità è un viaggio misterioso e appassionante attraverso le neuroscienze, la psicologia, la religione, l’antropologia, la sociologia. Che finisce per portarci al centro di noi stessi. Perché se tutta la nostra esistenza è tesa a massimizzare la totalità del piacere e della realizzazione personale, la domanda di fondo è: come arrivarci? Esiste una formula della felicità? 
L’ottava edizione del Festival delle scienze, in programma da giovedì 17 a domenica 20 gennaio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, va a indagare un’idea radicata nella nostra esperienza fin dall’antichità della storia umana. Che non riguarda solo il singolo individuo: perché la felicità è anche un problema politico ed economico, influenza le decisioni, è l’obiettivo di fondo, il sottointeso di ogni azione. Ma che cos’è davvero questo concetto, che viene sancito come un diritto in alcune Costituzioni e anche nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti?2 LEGGI TUTTO...
La non ricerca della felicità

Ho scoperto che non c’è nessun segreto da scoprire
Il filosofo Daniel M. Haybron, autore di “The Pursuit of Unhappiness”, spiega perché ogni criterio per valutare il grado di soddisfazione o successo individuali sia un fallimento

Daniel M. Haybron

"La Repubblica", 16 gennaio 2013

Prima di poter dire che cosa ci rende felici, dobbiamo dire con chiarezza che cosa intendiamo con la parola felicità. Non esiste un’unica definizione corretta, ma alcune delle cose per cui questa parola viene usata sono più importanti di altre. Una visione diffusa identifica la felicità, approssimativamente, con una sorta di giudizio: essere felici è essere soddisfatti della nostra vita nel suo complesso. Una cosa buona di questo approccio è che sembra collocare la felicità all’interno della sfera di controllo dell’individuo: se vuoi essere felice, non devi far altro che pensare positivo e seguire gli altri piccoli accorgimenti illustrati in questo libro, e sarai soddisfatto! Una cosa meno buona è che sembra collocare la felicità troppo all’interno della sfera di controllo dell’individuo.
Quasi chiunque può trovare buone ragioni per essere soddisfatto della vita, perché i criteri per emettere il giudizio sono estremamente vaghi. La vita è piena di cose dolci e cose amare e dare un giudizio sulla somma delle une e delle altre inevitabilmente è come tirare una moneta. Pensate a tutti i pro e i contro della vostra vita e cercate di sintetizzarli in un numero, come se steste giudicando l’esibizione di un ginnasta. È più un 4 o più un 7? Forse potrebbe essere sia un 4 che un 7, e quindi tanto vale essere positivi: che senso ha lamentarsi se non ce n’è necessità?
Un secondo problema è che la soddisfazione per la vita implica giudicare se la nostra vita è bella abbastanza per noi. Non è chiaro dove vada fissata l’asticella per ritenere una vita riuscita. Diciamo che avete realizzato il 73 per cento delle vostre aspirazioni: è un risultato soddisfacente? Oppure avreste dovuto… cosa, rispedirla indietro e chiedere una sostituzione? Sospetto che la maggior parte di noi abbia una più che salutare carenza di opinioni al riguardo: non disponiamo di parametri precisi su quanto bella dovrebbe essere la nostra vita per ritenercene soddisfatti. Andiamo a un funerale e pensiamo: beh, per quanto mi vadano male le cose adesso, di sicuro è meglio che essere morti. Oppure leggiamo un libro su una persona di successo e al confronto la nostra vita ci appare insignificante, e ci sentiamo insoddisfatti.
Sintetizzando, gli approcci che identificano la felicità con la soddisfazione hanno un collegamento distorto con la realtà. Anche quando le cose vanno male, è sempre possibile essere soddisfatti della propria vita, basta pensare che è bella a sufficienza. «Sono disoccupato, divorziato e mi sento depresso, ma almeno sono in buona salute. Sono grato per ciò che Dio mi ha dato».
Possiamo chiamare tutto questo felicità, se vogliamo: non è una forzatura linguistica. Ma in questo caso il fatto che siamo felici o che non lo siamo non sembra comportare granché. Quando i ricercatori dicono che le persone sono felici basandosi su studi relativi al grado di soddisfazione per la propria vita, non è necessariamente un’informazione significativa.
Vuol dire che le ricerche sul grado di soddisfazione per la propria vita sono inutili? Niente affatto: le persone che dichiarano di essere più soddisfatte in media se la passano comunque meglio di quelle che dicono di essere meno soddisfatte. Perciò questi studi possono dirci chi se la passa meglio senza dirci se la gente se la passa effettivamente meglio (o senza dirci se è felice, secondo una qualunque accezione rilevante del termine).
Un’altra concezione molto diffusa della felicità combacia meglio, a mio parere, con l’idea che la felicità sia una faccenda seria. Si tratta della visione che identifica la felicità con la situazione emotiva generale di un individuo, in sostanza il contrario dell’angoscia o della depressione. Essere felici non dev’essere confuso con l’emozione, molto più limitata, del sentirsi felici. È uno degli elementi, ma nella condizione emotiva di un individuo c’è molto di più: c’è il sentimento di energia o di vitalità, o lo stato sospeso in cui si entra quando si è assorbiti da un’attività coinvolgente. Forse l’aspetto più importante della felicità è quello che potremmo chiamare “sintonia”: un misto di tranquillità, sicurezza ed espansività emotiva che segnala che vi sentite pienamente a vostro agio con la vita. Immaginate il contrario dell’angoscia, dello stress, di un senso di schiacciamento o di un sentimento di insicurezza o provvisorietà. Non c’è bisogno di condurre una vita posata per sperimentare la sintonia: gli atleti di vertice sembrano godere di questo stato, sembrano trovarsi perfettamente a proprio agio in se stessi, rilassati nello spirito. E in effetti l’attività fisica spesso rasserena e acquieta la mente.
Intesa come benessere emotivo, la felicità sembra più che mai difficile da perseguire. Pensare positivo e altri metodi racimolati dai manuali di auto-aiuto sicuramente possono risultare utili. In generale, a quanto sembra, diventiamo più felici conducendo una vita migliore: sottraendoci alle pressioni di quel capo che vuole controllare anche i minimi dettagli, allentando le esigenze per lasciarci un po’ di respiro, passando più tempo con persone che ci piacciono e di cui ci fidiamo, esercitando le nostre capacità in un lavoro significativo e in generale entrando in contatto con le cose e le persone che contano.
Le fonti della felicità, in buona parte, sono qualcosa che va ricercato insieme. Non necessariamente attraverso lo Stato, anche se è una delle possibilità. In una democrazia, lo Stato non può semplicemente imporre uno stile di vita che procuri felicità ai suoi cittadini, senza curarsi di quello a cui tengono. La cultura probabilmente è più importante: il libero scambio delle idee e quel po’ di influenza che ognuno di noi esercita su chi gli è vicino attraverso le sue scelte in materia di stile di vita. I nostri assetti sociali probabilmente non possono cambiare se non cambiano le nostre priorità collettive.
La ricerca della felicità per certi aspetti è la più privata e personale delle imprese, eppure sotto altri aspetti è una faccenda molto sociale. Una parte la facciamo da soli, ma il grosso, sospetto, dobbiamo farlo insieme. Se non c’è un gran bisogno di ricercare la felicità può essere un segnale che indica che siamo in presenza di una società valida: la gente può seguire i propri sogni, fare i soliti errori che fanno gli esseri umani e nonostante questo avere buone possibilità di essere felice. Forse lo scopo che ci dobbiamo prefiggere è la non ricerca della felicità.
Traduzione Fabio Galimberti

Nessun commento:

Posta un commento