Stefano Montefiori
"Corriere della Sera - La Lettura", 27 gennaio 2013
Charles Dantzig è un affermato scrittore ed editore francese che a 51 anni ha deciso di dedicare un erudito saggio all’idea di capolavoro. Per difenderlo, innanzitutto. «Viviamo nella società dello sforzo che ci chiede di eccellere in ogni occasione. Dobbiamo sforzarci di essere sempre competitivi sul lavoro, diventare imprenditori, fondare una famiglia, comprare una seconda casa, fare bungee jumping durante le vacanze e venerare i campioni dello sport che visibilmente si sforzano tantissimo. Solo in letteratura lo sforzo è visto con sospetto: la mancanza di stile è rivendicata, invece che giudicata per quel che è, cioè pigrizia o assenza di talento». In omaggio alla nozione di capolavoro, di quel «Fosbury verso l’inesplorato quando per anni si era saltato a forbice», Dantzig si è messo a studiarlo per scoprire che nessuno, o quasi, lo aveva fatto prima.
«Immaginavo esistesse una bibliografia sterminata sul concetto di capolavoro, invece niente. Neanche un titolo in lingua francese né in inglese, e credo lo stesso nel resto d’Europa. Si rende conto?». Dantzig è ancora stupito, mentre ne parla davanti a un succo di pompelmo in un caffè parigino. Eppure capolavoro esiste in tutti gli idiomi. Chef-d’oeuvre, obra maestra, obra prima, masterpiece, Meisterwerk, aristouryima o shedevr («importato nel russo dal francese, come un vestito da Parigi nel Settecento»), e così via.
Come si spiega, prima di A propos des chefs-d’oeuvre (Grasset, pp. 276), questa riluttanza a indagare su che cosa sia un capolavoro? «Perché viene trattato come un mistero della fede, e le persone hanno bisogno di sacro. La parola nasce intorno al 1200 tra gli artigiani, e il primo a usarla in letteratura, che io sappia, è Voltaire in Il secolo di Luigi XIV (1752): “Si giudica un grand’uomo dai suoi capolavori, non dagli sbagli”. Ma dopo 250 anni, ancora non osiamo dare una definizione di che cos’è un capolavoro».
Dantzig ci prova, alla fine di un libro che è un viaggio divertito tra secoli di libri e scrittori: «Il capolavoro letterario è un libro eccezionale che crea il suo proprio criterio e che non si può giudicare se non tramite se stesso. Espressione la più audace possibile di una personalità, ogni capolavoro è unico. Niente attiene al capolavoro se non la forma di quel capolavoro. Il capolavoro è la creazione più esaltante dell’umanità».
«È solo una proposta, un punto di partenza», dice Dantzig, che per 270 pagine cerca di illustrare il capolavoro partendo da esempi concreti. Come Teorema di Pier Paolo Pasolini. «Un capolavoro in molti casi non è perfetto. Pasolini ha avuto l’idea di scrivere una specie di romanzo muto in cui nessuno parla, non ci sono dialoghi, dà questa sensazione di affresco rinascimentale. Ma in due occasioni dimentica il progetto e fa parlare i suoi personaggi, due sbavature che tolgono il capolavoro da quel sacro piedistallo su cui viene a torto innalzato e lo rendono umano, accessibile, meraviglioso».
Poi ci sono i capolavori presunti, come Don Chisciotte di Cervantes, «che nessuno legge», e che è considerato un capolavoro spesso per le ragioni sbagliate: «Non è un romanzo picaresco, ma una critica dei romanzi cavallereschi e un’analisi dei pericoli della lettura sulle menti fragili, intuizione che influenzerà Flaubert nella scrittura di Madame Bovary, sorta di Doña Quichotte». E i capolavori negati «soprattutto in ambito accademico, perché tanti studiosi e docenti, soprattutto in Francia, Germania e Italia, meno in Inghilterra, guardano ai capolavori con sufficienza, non amano appassionarsi all’opera di un ingegno che non sia il loro. La contestazione della nozione stessa di capolavoro fa molto Europa occidentale, e va di pari passo con l’idea che la nostra civiltà sia al crepuscolo. Tutti pronti a dire che il romanzo è morto, la letteratura è morta, eccetera. Sciocchezze».
Tra le parti più interessanti del lavoro di Dantzig c’è la tirata contro la «moda Céline» e i suoi appassionati difensori. «I lettori incolti si inventano dei capolavori inesistenti. A 40, 50 anni, dopo terribili studi di commercio e vent’anni di schiavitù e schiavismo in un’azienda, si lasciano affascinare durante i 15 giorni di vacanza da un libro celebre, chiassoso e impertinente. Tornano a Parigi e durante un consiglio di amministrazione buttano lì “In Viaggio al termine della notte, Louis-Ferdinand Céline… Conoscete Céline?”. La gloria esclusivamente francese di questo romanzo è l’impostura letteraria di un Paese provinciale e politicamente malato, che non si rassegna di avere perduto la guerra dopo che De Gaulle gli ha fatto credere di averla vinta. Céline è la passione di chi ha letto molto poco. Non per niente è adorato dal nostro ex presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy». E da uno dei più celebri e amati attori teatrali e di cinema francesi, Fabrice Luchini. «Ma il danno che Fabrice Luchini ha fatto alla letteratura francese negli ultimi 15 anni è considerevole. Luchini è un istrione, un Alberto Sordi senza il genio di Alberto Sordi. Luchini ha accreditato la tesi che Céline, come dice lui stesso, abbia inventato uno stile, quei punti di sospensione con il punto esclamativo, ma è falso: Céline li ha copiati dal poeta Jules Laforgue, lui sì autore del capolavoro Les moralités legendaires».
Il viaggio di Charles Dantzig tra i capolavori prevede innamoramenti e stroncature ma — come è evidente dalla sua definizione — è impossibile stabilire un parametro univoco e oggettivo. Esiste un canone del capolavoro letterario e — tranne Viaggio al termine della notte — le opere che ne fanno parte generalmente non sono abusive, concede lo scrittore. L’Edipo a Colono di Sofocle, il Decameron di Boccaccio, il Riccardo III di Shakespeare, Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust sono difficili da contestare, e si potrebbe dire che il capolavoro letterario «è un grande libro verso il quale non esistono più obiezioni».
Ma non basta, anzi, il consenso è un rischio. Il capolavoro rischia di diventare un anziano che si assopisce nella venerazione che si ha di lui. Preso nella ragnatela di note a piè di pagina e impiombato dalle citazioni, sempre le stesse, fatte da persone «che non l’hanno letto ma citano persone che citavano prima di loro», il capolavoro si annoia a morte, piazzato negli scaffali delle «biblioteche ideali». Finché un insolente ragazzino rompe la ragnatela, libera l’anziano e lo porta a giocare con sé mentre i vecchi continuano a guardare gli scaffali. Il libro di Dantzig, alla fine, è soprattutto un invito alla lettura indipendente, perché «il buon lettore è l’essere meno religioso del mondo», ed è solo tramite una lettura vera e sana e perennemente critica che i capolavori possono essere salvati. «La nozione di capolavoro è fondamentale, è necessaria alla sopravvivenza stessa della letteratura», dice Dantzig. I capolavori, male che vada, corrono il rischio di impolverarsi nelle librerie e di rappresentare la Porsche del ceto medio riflessivo, il santino da esibire o da riguardare ogni tanto per sentirsi a posto, rassicurati. Ma allo stesso tempo sono un baluardo contro la volgarità, «perché quelli che pensano solo ai soldi, quelli che osservano con sguardo di sufficienza chi legge un libro sul bus o in metro, sono intimiditi dal concetto di capolavoro. Non sanno bene che cosa sia ma sono restii ad attaccarlo. Le persone volgari sono intimidite dal capolavoro e questo è un bene».
Dantzig esita a citare autori contemporanei, «per non sfavorirli. Se avessi scritto questo libro all’epoca di Chateaubriand, lo avrei probabilmente giudicato un autore medio, prima del grandissimo e finale Le memorie dell’oltretomba». Tra i libri di solito non presenti nel canone dei capolavori,ma che invece Dantzig tiene a ricordare come tra i suoi preferiti, c’è De reditu suo di Rutilius Namatianus, «un funzionario dell’impero romano che viveva in Gallia, e che un giorno va nella capitale. Il libro è il racconto, scritto benissimo, del suo ritorno in Gallia. Rutilius Namatianus vede le prime devastazioni dei barbari, ma le scambia per l’opera casuale di banditi. Lui non lo sa, ma ci racconta il crollo dell’impero romano». Sempre fuori dal canone c’è poi il misconosciuto Horn di Louis Lerne, raro caso di autore contemporaneo. «Ma vorrei citare anche Caos Calmo di Sandro Veronesi — aggiunge Dantzig —. In particolare le prime 40 pagine, quelle che raccontano lo sventato annegamento, sono eccezionali. Il resto è discontinuo, ma come dicevo prima la perfezione non è necessaria». Nella lista dei «capolavori veri» c’è soprattutto, inevitabile, Alla ricerca del tempo perduto, opera anche questa baciata da un’imperfezione. «È la celebre frase, verso la fine, in cui Proust sostiene che la letteratura è l’unica vita che valga la pena di essere vissuta. Io non sono d’accordo, la letteratura per me è il migliore strumento per vivere bene, è un’arma al servizio della vita vera».
Poco spazio è dato a Philip Roth, il re degli scrittori contemporanei. «Tra i capolavo rimetterei solo il Lamento di Portnoy, gli altri suoi libri li trovo troppo altalenanti ». Il capolavoro secondo Dantzig non prevede l’uso di troppi dialoghi, «come per esempio in Libertà di Jonathan Franzen, con quelle centinaia di pagine di botta e risposta irritanti. Trovo che i dialoghi non andrebbero usati per fare avanzare la storia, per dare informazioni, ma per suggerire al lettore la psicologia del personaggio. In questa abitudine di oggi vedo l’insidiosa influenza delle serie tv». Abbiamo a che fare con un pericoloso letterato che non apprezza la grandezza di West Wing o Homeland o Borgen? «Al contrario, sono un grande fan delle serie tv. Non sono sicuro però che la trasposizione di quel procedimento in letteratura possa funzionare».
Il libretto di istruzioni per scrivere un capolavoro, naturalmente, non esiste. Ci sono però atteggiamenti che, secondo Dantzig, ne allontanano la possibilità. Il compiacimento un po’ alla Marguerite Duras di Elsa Morante nell’Isola di Arturo. La pretesa di rappresentare un’epoca, «quando invece il capolavoro non è rappresentativo che di se stesso». E poi, la minaccia suprema, il realismo. Lo praticano certi scrittori lasciando intendere che solo loro sono esatti e seri, «ma è una forma di ricatto, un tirare arbitrariamente dalla propria parte la realtà: non esistono capolavori impersonali». Una cosa, soprattutto, Dantzig si aspetta da un capolavoro: che trasformi il lettore stesso in capolavoro. Un buon romanzo siamo in grado di domarlo. Un capolavoro si impadronisce di noi. «Quando leggo Proust, io sono Proust».
Twitter @Stef_Montefiori
Franco Cordelli
"Corriere della Sera - La Lettura", 27 gennaio 2013
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