Giuseppe Galasso
"Corriere della Sera", 27 gennaio 2013
Non bisogna andare lontano per avvicinarsi alla storia. «La storia siamo noi» dice una famosa canzone di Francesco De Gregori; ed è un'affermazione ineccepibile. Noi: noi uomini, cioè, nel mondo in cui viviamo, e che non sappiamo quale futuro avrà, ma ben sappiamo che ha avuto, come ciascuno di noi, un passato, una storia. Ed è, per l'appunto, quando, per ricordare o per una qualsiasi necessità, ci volgiamo al passato, che ci chiediamo: «Che cos'è mai la storia?».
Domanda antichissima, ma di quelle che perpetuamente si pongono e si ripropongono. Per il grande storico tedesco Leopold von Ranke, la storia consiste nel cercare che cosa realmente (realmente è qui la parola più importante; wirklich in tedesco) sia accaduto nel passato, come, cioè, siano veramente andate le cose nel passato. Una definizione semplice solo in apparenza. Essa implica, infatti, in primo luogo, che il passato è diverso da noi, ha una sua alterità rispetto a noi; e, in secondo luogo, che noi al passato possiamo accedere, che lo possiamo conoscere e riconoscere come passato, ossia in quella sua oggettiva alterità dovuta al fatto che, appunto perché passato, esso è diventato immutabile.
Ma, essendo così il passato, qual è poi la ragione per cui lo vogliamo o dobbiamo conoscere? Perché ci interessa il passato?
La verità è che noi abbiamo un bisogno di storia, che non nasce nel corso della nostra vita, nasce insieme con noi. In nessun momento possiamo, infatti, essere noi stessi sia come singoli, come individui sia come collettività o comunità, se non abbiamo una visione storica di noi stessi. Se non abbiamo, cioè, un'idea di ciò che eravamo nelle varie fasi della nostra vita e di ciò che ci ha fatto diventare quel che siamo oggi. Nessuna identità può, in effetti, sussistere senza un tale retroterra di memoria e di coscienza. Né si tratta di un retroterra fissato una volta per sempre. In ogni momento della nostra vita noi lo ricordiamo e lo raccontiamo in modo nuovo, e magari anche molto diverso da ieri. Certo, anche perché atteggiamo il nostro passato in modo che convenga al nostro presente, ma allo stesso tempo perché in quel passato diventiamo sempre più capaci di leggere meglio e più a fondo.
Ecco, dunque, perché ci interessa il passato e perché ci interessiamo ad esso. Sono i problemi e i bisogni del presente a spingerci verso di esso. È il nostro perenne, inesauribile bisogno di autocoscienza e di identità, è la nostra continua ricerca di noi stessi a spingerci a riformulare e a riatteggiare il nostro senso e la nostra immagine del nostro passato, spesso con mutamenti radicali rispetto alle immagini che ne avevamo prima. Perciò a ogni stagione della vita ci diamo idee e immagini differenti del nostro essere di ieri e dell'altro ieri. Sono le necessità e le spinte del presente a portarci a queste continue riletture del nostro passato. E questo è vero (occorre ripeterlo) sia per gli individui, dal meno provveduto di un suo patrimonio intellettuale e culturale al più geniale e multiforme, sia per qualsiasi gruppo umano, dal più piccolo e più primitivo al più grande, complesso e avanzato. Ed è, dunque, per questo che la storia viene scritta e riscritta a ogni generazione, e secondo le vedute e le necessità dei vari, innumerevoli grandi e piccoli gruppi umani compresenti sulla scena del mondo.
Un perenne fare e rifare che, però, non è affatto, come si potrebbe credere, un perenne disfare. Il passato è il passato. La sua alterità e immutabilità sono sempre fuori discussione. Se noi lo alteriamo per nostro piacere o per nostro interesse, prima o poi questa alterazione si ritorce contro di noi e ci costringe a un più serio ripensamento. E questo perché il passato lo possiamo far rivivere solo se ne abbiamo qualche documento. Come in una famosa réclame, la regola è: no documents, no history.
È come nella nostra vita privata. Il tempo rende sfocati, incompleti, inesatti i nostri ricordi, ma se abbiamo qualcosa alla mano (lettere, fotografie, filmini, oggetti, giochi e giocattoli, carte di identità o altri documenti, atti notarili, qualche mobile o qualche attrezzo, le pagelle della scuola, vecchi indumenti e qualsiasi altra cosa superstite del nostro passato) il nostro ricordo ne sarà ravvivato e sul nostro passato non ci potremo raccontare troppe favole. Che è quel che, per l'appunto, accade anche a livello collettivo e che costituisce il mestiere dello storico. Un mestiere che produceva in origine miti e leggende a cura di sacerdoti e altre simili figure sociali, ma diventato già presso i Greci e i Romani e, poi, soprattutto nell'Europa moderna, una «scienza», con suoi statuti e metodi, con criteri rigidamente documentari e con una capacità sempre più ampia di studio del passato, secondo moduli sempre più complessi, dalla semplice biografia alla «storia universale», ossia a una storicizzazione complessiva delle vicende di tutta l'umanità.
È, dunque, la visione storica del nostro essere, di quello che siamo in quanto continuatori di quel che siamo stati, come singoli e come comunità o collettività, a consentirci di riconoscerci come tali, ossia ad assicurarci della nostra identità.
Nel corso del tempo, a volte, la soddisfazione comunitaria di questa esigenza ineludibile è più forte della sua dimensione e soddisfazione individuale; e nelle comunità vi è un fortissimo senso storico della propria identità. In questi casi la soddisfazione comunitaria di quel bisogno assorbe e risolve in sé, più o meno largamente, anche la sua soddisfazione a livello individuale. Ci si riconosce come individui in quanto membri della comunità e partecipi della sua identità. In altri casi, invece, da un lato, le comunità avvertono il bisogno storiografico in maniera attutita, mentre, dall'altro lato, il senso dell'individuo e dell'individualità si presenta molto più forte. In tali casi l'esigenza individuale di soddisfare il bisogno di storia prevale nettamente; il senso e la coscienza individuale non si sentono e non si ritengono più assorbiti e soddisfatti appieno dalla pratica storiografica comunitaria, collettiva.
Oggi vi sono condizioni nuove di questa connotazione sociale e individuale della storiografia; e ciò perché nella civiltà moderna uno dei fili rossi più importanti appare il potenziamento simultaneo sia del piano e delle esigenze sociali, collettive, comunitarie sia della presenza e della forza dell'individuo e del conto che se ne fa. E questo significa che, permanendo sempre il bisogno di storia con le sue esigenze di pensiero e di immagine, vi è pure l'esigenza di soddisfarlo in relazione alle circostanze per cui, a livello sia individuale sia collettivo e sociale, la domanda di storia si è tanto moltiplicata.
Una domanda nella quale non si è mai spenta l'antica aspettativa che la storia ci dica il nostro da fare di oggi, che sia, come si diceva un tempo, maestra della vita. Ciò che è stato ci dovrebbe dire ciò che sarà. Ma non è così. Il passato illumina il presente, ma non lo determina, diceva Hannah Arendt. Il presente lo facciamo noi, con le nostre azioni, idee, volontà, passioni, interessi. Il passato ci condiziona, ma non ci costringe. Se fosse altrimenti, in tanto tempo, da Adamo ed Eva in poi, avremmo appreso molto bene a dedurre il futuro dal passato. Anche i genitori ammoniscono i figli in base alla propria esperienza e i figli riluttano ai loro ammaestramenti, e hanno ragione. Il presente dei figli non è quello dei genitori, e nessuno rinuncia al diritto di formarselo a propria misura.
Perciò, la storia ci dice da dove veniamo e dove ci troviamo e di questo non possiamo fare a meno. Ma dove andare da oggi in poi lo decidiamo noi, ora. E, insomma, né i padri possono rifiutare la responsabilità di aver condizionato in un certo modo i loro figli né i figli possono giustificarsi di quel che fanno con le responsabilità dei genitori. La storia, a ben pensarci, è una scuola inesorabile che impone a tutti, senza eccezioni, esami senza fine; è una palestra di esercizi e di gare senza pause di riposo o di minore impegno.
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